La creatura meditò sulla domanda di Roland, poi distese le dita (che erano dieci, notò Eddie) cinque volte. Cinquanta. Ma cinquanta di che cosa, Eddie non aveva idea.
«E Discordia?» chiese brusco Roland. «Dici il vero?»
«Oh aye, così io dico Chevin di Chayven, figlio di Hamil, menestrello delle Pianure Meridionali che un tempo erano casa mia.»
«Dimmi il nome della città che si trova vicino al Castello Discordia e ti libererò.»
«Ah, pistolero, sono tutti morti laggiù.»
«Io non credo. Dimmelo.»
«Fedic!» esclamò Chevin di Chayven, un musica ambulante, che mai avrebbe sospettato che la sua vita sarebbe finita in un luogo così lontano e straniero, non le pianure del Medio-Mondo, bensì le montagne del Maine occidentale. Alzò all'improvviso l'orribile faccia luminosa. Spalancò le braccia, come un crocifisso. «Fedic sul lato lontano di Rombo di Tuono, sul sentiero del Vettore! Su Shardik V, Maturin V, la Via alla Torre N...»
La rivoltella di Roland parlò una sola volta. Il proiettile raggiunse al centro della fronte l'essere genuflesso, completando la rovina del suo volto devastato. Mentre era proiettato all'indietro, Eddie vide le sue carni trasformarsi in fumo verdastro, diafano come l'ala di un calabrone. Per un attimo Eddie vide, sospesi nell'aria, i denti di Chevin di Chayven, come una spettrale chiostra di coralli, poi scomparvero anch'essi.
Roland lasciò ricadere la rivoltella nella fondina, poi si passò sulla fronte le dita della mano mutilata in un gesto in cui Eddie riconobbe una benedizione.
«Ti dia pace», disse Roland. Poi si slacciò il cinturone e cominciò ad avvolgere l'arma nella fondina.
«Roland, quello era... un Lento Mutante?»
«Aye, suppongo che si possa dire così, poveraccio. Ma i Roderick sono di un tempo precedente a tutte le terre da me conosciute, sebbene prima che il mondo andasse avanti rendessero la loro grazia a Arthur Eld.» Rivolse a Eddie un'espressione stanca in cui gli occhi celesti bruciavano di una luce intensa. «Fedic è dove è andata Mia a partorire il suo bambino, ne sono certo. Dove ha portato Susannah. Vicino all'ultimo castello. Dovremo tornare a Rombo di Tuono, prima o poi, ma prima dovremo andare a Fedic. Buono a sapersi.»
«Ha detto che si sentiva triste per qualcuno. Per chi?»
Roland scosse solo la testa e non rispose alla domanda di Eddie. Passò rumoroso un furgone della Coca-Cola e a occidente, lontano, rombò un tuono.
«Fedic della Discordia», mormorò invece il pistolero. «Fedic della Morte Rossa. Se possiamo salvare Susannah, e anche Jake, torneremo in direzione dei Calla. Ma ci torneremo dopo che avremo compiuto la nostra missione laggiù. E quando torneremo di nuovo a sud-est...»
«Cosa?» chiese in modo ansioso Eddie. «Cosa allora, Roland?»
«Allora non ci saranno più fermate finché non avremo raggiunto la Torre.» Protese le mani e le guardò tremare lievemente. Poi alzò gli occhi su Eddie. La sua espressione era stanca ma senza paura. «Non sono mai stato tanto vicino. Sento il bisbiglio di tutti i miei perduti amici e dei loro perduti padri. Bisbigliano sul fiato stesso della Torre.»
Eddie lo fissò affascinato e impaurito, poi dissolse quell'atmosfera di tensione con uno sforzo quasi fisico. «Be'», disse, tornando alla Ford, «se qualcuna di quelle voci ti spiega che cosa dobbiamo dire a Cullum, in quale modo convincerlo di ciò che vogliamo da lui, fammelo sapere.»
Eddie salì in macchina e chiuse lo sportello prima che Roland potesse rispondere. Con gli occhi della mente continuava a vederlo puntare quella sua grossa rivoltella. Lo vedeva prendere la mira sulla figura inginocchiata e premere il grilletto. Era l'uomo che chiamava insieme dinh e amico. Ma poteva affermare con una qualsiasi certezza che Roland non avrebbe fatto lo stesso a lui, o a Suze... o a Jake... se il cuore gli avesse indicato che così si sarebbe avvicinato alla sua Torre? No, non poteva. Ciononostante sarebbe rimasto con lui. Sarebbe andato avanti anche se in cuor suo fosse stato certo - oh, Dio non volesse! - che Susannah era morta. Perché doveva. Perché Roland era diventato per lui ben più che il suo dinh o il suo amico.
«Mio padre», mormorò Eddie un istante prima che Roland aprisse lo sportello sull'altro lato dell'automobile e salisse al suo fianco.
«Hai parlato, Eddie?» chiese il pistolero.
«Sì», rispose Eddie. «'Solo un piccolo padre.' Alla lettera.»
Roland annuì. Eddie inserì la marcia e riprese la via per Turtleback Lane. Ancora lontano, ma un po' più vicino di prima, il tuono brontolò di nuovo.
4
Dan-Tete
1
Mentre l'ora della nascita si avvicinava, Susannah Dean si guardò intorno, contando ancora una volta i suoi nemici come Roland le aveva insegnato. Non devi mai estrarre, aveva detto, finché non sai quanti sono quelli che devi affrontare oppure non ti sarai convinta che non potrai mai saperlo, oppure avrai deciso che è venuto il tuo giorno per morire.
Peccato che dovesse anche vedersela con quell'orribile calotta che le invadeva i pensieri, la quale però, qualunque cosa fosse, sembrava ignorare lo sforzo che Susannah faceva per contare le persone presenti al momento dell'arrivo del tizio di Mia. Ed era un bene che fosse così.
C'era Sayre, il soprintendente. L'uomo basso con uno di quei cerchi rossi che gli pulsava al centro della fronte. C'era Scowther, il medico che, tra le gambe di Mia, si preparava a officiare al parto. Sayre lo aveva aspramente censurato quando Scowther aveva dato segni di eccessiva arroganza, ma probabilmente non tanto da pregiudicare la sua efficienza. C'erano altri cinque uomini bassi, oltre a Sayre, ma aveva colto solo altri due nomi. Quello con la pappagorgia da bulldog e il pancione era Haber. Vicino ad Haber c'era un essere uccellesco con la testa coperta di piume marrone e gli occhi malvagi e acuti di un falco. Il nome di quella creatura era forse Jey o Gee. Sette in tutto, armati di pistole automatiche in prese del portuale. Quella di Scowther spuntava sbadatamente da sorto il camice bianco ogni volta che si chinava. Susannah l'aveva già messa in lista.
Intorno a Mia c'erano anche tre umanoidi pallidi e vigili. Costoro, avvolti in aure blu scuro, erano sicuramente vampiri. Probabilmente di quelli che Callahan chiamava «Tipo Tre». («Pesci pilota», li aveva definiti una volta il Père.) E siamo a dieci. Due dei vampiri erano armati di bah, il terzo aveva una sorta di spada elettrica ora tenuta accesa al livello di flebile lumicino. Se fosse riuscita a impossessarsi della pistola di Scowther (quando te ne sarai impossessata, dolcezza, si corresse: aveva letto Come acquistare fiducia e avere successo e credeva ancora fino all'ultima parola a tutto ciò che il reverendo Peale aveva scritto), l'avrebbe usata prima di tutto sull'uomo con la spada elettrica. Dio forse sapeva che danni era capace di infliggere quell'arma, ma di certo Susannah Dean non aveva voglia di scoprirlo.
C'era poi un'infermiera con la testa di un enorme topo marrone. L'occhio che pulsava rosso al centro della sua fronte fece dedurre a Susannah che la maggior parte del folken basso indossasse maschere dalle sembianze umane, evidentemente per evitare di terrorizzare la selvaggina quando i mostri si aggiravano per i marciapiedi di New York. Forse non erano tutti topi, là sotto, ma nessuno di loro somigliava a quel bellone di Robert Goulet, era pronta a scommetterlo. L'infermiera con la testa di roditore era la sola fra i presenti che, almeno a giudizio di Susannah, non fosse armata.
Il conto totale era di undici. Undici in quella vasta e quasi deserta infermeria che, ne era sicura, non si trovava certo nella giurisdizione di Manhattan. E se lei voleva agire, avrebbe dovuto farlo mentre erano presi dal bambino di Mia, dal suo prezioso tizio.
«Sta uscendo, dottore!» esclamò palpitante l'infermiera, al colmo della tensione.
Era vero. Il conteggio di Susannah s'interruppe nell'esplosione del dolore più forte. Che prese entrambe. Seppellì entrambe. Gridarono all'unisono. Scowther stava ordinando a Mia di spingere, di spingere ADESSO!
Susannah chiuse gli occhi e spinse a sua volta, perché era anche il suo bambino, o lo era stato. Nel momento in cui sentì il dolore defluire da sé come acqua che scivola in un gorgo per uno scarico buio, provò un dispiacere profondo come non aveva mai conosciuto. Perché era in Mia che fluiva il bambino; le ultime poche righe del messaggio vivente a cui il corpo di Susannah era stato assegnato il compito di trasmettere. Stava finendo. Comunque fosse andata da lì in avanti, quella parte stava finendo, e Susannah Dean mandò un grido che era insieme di sollievo e rimpianto; un grido che era esso stesso come una canzone.
Poi, prima che cominciasse l'orrore, una cosa così terrificante che ne avrebbe ricordato ogni minimo particolare come se nel fascio di luce di un riflettore fino al giorno della sua entrata nella radura, sentì una mano piccola e calda che le afferrava il polso. Girò la testa, ruotando con essa lo sgradevole peso della calotta. Si sentì respirare a fatica. I suoi occhi incontrarono quelli di Mia. Mia dischiuse le labbra e pronunciò una sola parola. Susannah non la udì nel ruggito di Scowther (si era chinato ora a scrutare tra le gambe di Mia con il forcipe alzato e appoggiato alla fronte). Però la sentì lo stesso e capì che Mia stava cercando di mantenere la sua promessa.
Ti lascerò libera, se ne avrò la possibilità, aveva promesso la sua rapitrice e la parola che ora Susannah udì nella mente e vide sulle labbra della partoriente fu chassit.
Susannah, mi senti?
Ti sento molto bene, rispose Susannah.
E capisci il nostro patto?
Aye. Ti aiuterò a salvarti da questi con il tuo tizio, se posso e...
Uccidici se non puoi! finì con impeto la voce. Mai era stata così potente. Era in parte dovuto al cavo che le collegava, pensò Susannah. Dillo, Susannah, figlia di Dan!
Vi ucciderò entrambi se non...
S'interruppe lì. Mia parve comunque soddisfatta ed era meglio così, perché Susannah non avrebbe potuto proseguire nemmeno se fosse stata in gioco la vita di entrambe. Il suo sguardo era involontariamente salito al soffitto di quella stanza enorme, in un punto che si trovava a metà della fila dei letti. E lì vide Eddie e Roland. Erano diafani, spuntavano dal soffitto e riscomparivano, guardandola dall'alto come pesci fantasma.
Un altro dolore, ma non così forte. Avvertì le cosce irrigidirsi, poi una spinta, ma erano sensazioni lontane. Non importanti. In quel momento contava solo se stesse vedendo o no quello che le sembrava di vedere. Era stata forse la sua mente iperstressata a creare quell'allucinazione perché portasse conforto al suo anelito di salvezza?
Era quasi disposta a crederlo. E lo avrebbe creduto, con tutta probabilità, se non fossero entrambi stati nudi e attorniati da un'incredibile collezione di cianfrusaglie: una bustina di fiammiferi, un'arachide, ceneri, un soldino. E un tappetino d'automobile, Dio del cielo! Un tappetino con il marchio FORD.
«Dottore, vedo la te...»
Uno squittio sfiatato. Il dottor Scowther, non certo un gentiluomo, allontanò la rattiforme infermiera senza tanti complimenti con una gomitata e si protese ancor di più tra le cosce di Mia. Quasi che volesse estrarre il suo tizio con i denti. La creatura con la testa di falco, Jey o Gee, stava parlando in un dialetto infervorato e ronzante a un tipo chiamato Haber.
Sono lì davvero, concluse Susannah. Il tappetino lo dimostra. Non sapeva nemmeno lei come quel tappetino ne fosse la prova, ma ne era sicura. E formulò la parola che le aveva dato Mia: chassit. Era una parola d'ordine. Avrebbe aperto almeno una porta e forse molte. Chiedersi se Mia avesse detto il vero non le passò neppure per l'anticamera del cervello. Erano legate l'una all'altra, non solo dal cavo e dalle calotte, ma dal più primitivo (e mille volte più potente) atto del parto. No, Mia non aveva mentito.
«Spingi, fottuta fancazzista!» quasi urlò Scowther e Roland e Eddie scomparvero all'improvviso per sempre attraverso il soffitto, come soffiati via dal fiato di quell'uomo. Per quel che Susannah poteva dire, così era stato.
Si girò sul fianco sentendosi i capelli appiccicati a ciocche al cranio, sentendo che il suo corpo versava sudore a litri. Si spinse un po' più vicino a Mia; un po' più vicino a Scowther; un po' più vicino al calcio della pistola di Scowther che sporgeva dal camice.
«Stai ferma tu, odimi ti prego», intervenne uno degli uomini bassi e le toccò il braccio. La mano era fredda e flaccida, piena di grossi anelli. La carezza le fece raggricciare la pelle. «Sarà tutto finito in un minuto e poi tutti i mondi cambieranno. Quando questo si unirà ai Frangitori di Rombo di Tuono...»
«Zitto, Straw!» latrò Haber e spinse via l'improbabile consolatore di Susannah. Poi tornò con trepidazione a occuparsi del parto.
Mia inarcò la schiena gemendo. L'infermiera con la testa di topo le posò le mani sui fianchi e li spinse dolcemente contro il letto. «Buona, buona, spingi con la pancia.»
«Mangia merda, troia!» strepitò Mia e Susannah avvertì soltanto una debole tensione di dolore. Il collegamento tra loro si andava allentando.
Fece appello a tutta la sua capacità di concentrazione e gridò nel pozzo della propria mente: Ehi! Ehi tu, signora della Positronics! Sei ancora lì?
«Il contatto... è spento», rispose la bella voce femminile. Come la prima volta, parlò al centro della testa di Susannah, ma a differenza della volta precedente suonò ovattata, non più pericolosa di una voce che giunge per radio da lontano per un capriccio atmosferico. «Ripeto: il contatto... è spento. Noi speriamo che ricorderai la North Central Positronics per ogni tua ulteriore necessità di incremento intellettuale. E la Sombra Corporation! Una società leader nella comunicazione mente-a-mente dal diecimila!»
Nella profondità della mente di Susannah risuonò un BIII... BIIIP da far saltare i denti, poi il collegamento s'interruppe. Non fu solo l'assenza di quella voce femminile così orribilmente gradevole; fu tutto. La sensazione che provò fu quella di essere liberata da una dolorosa trappola che le comprimeva il corpo intero.
Mia gridò di nuovo e Susannah le fece eco. In parte era perché non voleva che Sayre e i suoi soci sapessero che il collegamento tra lei e Mia si era spezzato; in parte era dispiacere genuino. Aveva perso una donna che, in un certo senso, era diventata una sua sorella vera.
Susannah! Suze, sei lì?
All'udire quella nuova voce cominciò a sollevarsi sui gomiti, quasi dimenticando per un momento la donna al suo fianco. Quello era...
Jake? Sei tu, tesoro? Mi senti?
SÌ! gridò lui. Finalmente! Dio, con chi stavi parlando? Continua a gridare così riesco a individuarti...
La voce s'interruppe, ma non prima che Susannah udisse il crepitare fantasma di una sparatoria in lontananza. Jake che sparava a qualcuno? Pensava di no. Pensava che fosse qualcuno che stava sparando a lui.
2
«Ora!» sbraitò Scowther. «Ora, Mia! Spingi! Con tutte le forze! Mettici tutto quello che hai! SPINGI!»
Susannah cercò di avvicinarsi all'altra donna girandosi sul letto - Oh, sono preoccupata e in cerca di conforto, guarda come sono preoccupata, preoccupata e desiderosa di conforto, niente di più - ma quello che si chiamava Straw la tirò indietro. Il cavo flessibile oscillò e si tese tra le due. «Mantieni la distanza, troia», l'apostrofò Straw e per la prima volta Susannah pensò che non avrebbe avuto l'occasione d'impossessarsi della pistola di Scowther. O di quella di qualcun altro.
Mia gridò di nuovo, un'invocazione a un dio strano in una lingua strana. Quando cercò di sollevarsi dal tavolo, l'infermiera - Alia, a Susannah sembrava che si chiamasse così - la spinse giù di nuovo e Scowther emise un verso secco che poteva essere di soddisfazione. Abbandonò il forcipe.
«Perché?» volle sapere Sayre. Ora le lenzuola tra le gambe aperte di Mia erano bagnate di sangue e il soprintendente era al colmo della tensione.
«Non ne ho bisogno!» rispose gioviale l'ostetrico. «Questa è fatta per far figli, avrebbe potuto sfornarne una decina in una risaia senza smettere di raccogliere. Ecco che scivola fuori come olio!»
Scowther fece per afferrare il grosso catino in attesa sul letto accanto e decise che non ne avrebbe avuto il tempo e infilò invece le sue mani rosee e senza guanti tra le cosce di Mia. Questa volta, quando Susannah tentò di avvicinarsi a Mia, Straw non la fermò. Tutti, uomini bassi e vampiri, seguivano assolutamente incantati l'ultima fase della venuta al mondo, per la maggior parte assiepati ai piedi dei due letti, accostati per farne uno più grande. Solo Straw rimaneva vicino a Susannah. Il vampiro con la spada di luce fu declassato; decise che il primo ad andarsene sarebbe stato Straw.
«Ancora una volta!» gridò Scowther. «Per il tuo bambino!»
Come gli uomini bassi e i vampiri, Mia si era scordata di Susannah. I suoi occhi feriti e pieni di dolore erano fissi su Sayre. «Posso tenerlo, signore? Ti prego, dimmi che posso tenerlo, anche se solo per un po'!»
Sayre le prese la mano. La maschera che copriva il suo vero volto sorrise. «Sì, mia cara», rispose. «Il tizio è tuo per anni e anni. Solo spingi per quest'ultima volta.»
Mia, non credere alle sue menzogne! gridò Susannah, ma il suo ammonimento si perse nel nulla. Probabilmente era meglio così. Meglio che in quel momento tutti si dimenticassero di lei.
Rivolse i suoi pensieri in una direzione nuova. Jake! Jake, dove sei?
Nessuna risposta. Brutta storia. Volesse Iddio che fosse ancora vivo.
Forse è solo occupato. A scappare... nascondersi... combattere. Il silenzio non significa necessariamente che...
Mentre non smetteva di spingere, Mia sbraitò una sequela di parole incomprensibili, probabilmente una serie di volgarità. Le labbra della sua vagina già dilatate si aprirono ancora di più. Un nuovo fiotto di sangue andò ad alimentare la scura macchia a forma di delta sul lenzuolo su cui era adagiata. Poi, in quel miscuglio di rosso, Susannah scorse l'affiorare del bianco e del nero. Bianco, pelle. Nero, capelli.
Poi il bianco e il nero cominciarono a ritirarsi nel rosso e Susannah pensò che il nascituro scivolasse all'indietro non ancora pronto del tutto a uscire nel mondo, ma Mia non aveva intenzione di aspettare oltre. Spinse con tutte le sue considerevoli forze, con le mani davanti agli occhi, strette in pugni serrati e tremanti, gli occhi ridotti a due fessure, i denti scoperti. Una vena le pulsava pericolosamente al centro della fronte, un'altra le affiorava sulla gola.
«HEEEYAHHHH!» urlò. «COMMALA, BASTARDINO! COMMALA-COME-COME!»
«Dan-tete», mormorò Jey, l'essere-falco, e gli altri risposero in una sorta di bisbiglio riverente: Dan-tete... dan-tete... commala dan-tete. La venuta del piccolo dio.
Questa volta la testa del bambino non si limitò ad affiorare, ma fu sparata in avanti. Susannah vide i pugni minuscoli e tremanti di vita che il neonato teneva contro il petto sporco di sangue. Vide gli occhi blu, spalancati e stupefacenti per quanto erano vivi di consapevolezza e per quanto simili a quelli di Roland. Vide ciglia nere come carbone. Erano imperlate di goccioline di sangue, un barbarico ornamento natale. Susannah vide - e mai avrebbe dimenticato - come il labbro inferiore del bambino restasse momentaneamente impigliato sul labbro inferiore della vulva di sua madre. Nell'istante brevissimo in cui il neonato aprì la bocca, mise in mostra una fila perfetta di dentini. Ed erano denti davvero, non zanne ma dentini perfetti, tuttavia, vederli nella bocca di un neonato, fece provare a Susannah un brivido di gelo. Non meno inquietante fu la vista del pene del tizio, spropositatamente grosso e in piena erezione. Doveva essere più lungo del suo dito mignolo.
Con un urlo di dolore e trionfo, Mia si sollevò sui gomiti, strabuzzando gli occhi colmi di lacrime. Si allungò ad afferrare la mano di Sayre in una stretta ferrea nel momento in cui Scowther prendeva con destrezza il bambino. Sayre gemette e cercò di ritrarsi, ma fu come cercare di liberarsi da... be', da uno sceriffo di Oxford, Mississippi. La cantilena era terminata e ci fu un momento di silenzio sospeso nello stupore. In quella pausa Susannah udì distintamente il rumore delle ossa che scricchiolavano nel polso di Sayre.
«È VIVO?» strillò Mia in faccia a uno sbigottito Sayre. Le volò saliva dalla bocca. «DIMMI, SIFILITICO FIGLIO DI PUTTANA, DIMMI SE IL MIO TIZIO È VIVO!»
Scowther sollevò il tizio portandoselo all'altezza del volto. Gli occhi castani dell'ostetrico incontrarono quelli azzurri del neonato. E nel momento in cui il tizio fu sospeso così, tra le mani di Scowther, con il pene orgogliosamente ritto all'insù, Susannah vide bene il segno rosso sul suo tallone sinistro. Era come se fosse stato intinto nel sangue un attimo prima di uscire dall'utero di Mia.
Invece di sculacciare il neonato, Scowther trasse un respiro e gli soffiò ripetutamente negli occhi. Il tizio di Mia sbatté le palpebre in un gesto comico (e innegabilmente umano) di sorpresa. Trasse un respiro del suo, lo trattenne per un momento e lo esalò. Fosse stato anche il Re dei Re, o un distruttore di mondi, si presentava alla vita come tanti prima di lui, starnazzando indignato. All'udire quegli strilli, Mia scoppiò in lacrime di contentezza. Le diaboliche creature raccolte intorno alla neomamma erano servi giurati del Re Rosso, ma questo non li rendeva immuni a quello a cui avevano appena assistito. Ci furono risa e applausi. Con non poco disgusto, Susannah si ritrovò a unirsi alla celebrazione. A quei suoni il neonato si guardò intorno con un'espressione di chiara meraviglia.
Piangendo, con le lacrime che le rigavano le guance e muco trasparente che le colava dal naso, Mia protese le braccia. «Dammelo!» singhiozzò; così implorò Mia, figlia di nessuno e madre di uno. «Lasciamelo tenere in braccio, io prego, lasciatemi abbracciare mio figlio! Lasciatemi abbracciare il mio tizio! Lasciatemi tenere tra le braccia il mio tesoro!»
E, al suono della voce di sua madre, il neonato girò la testa. Susannah lo avrebbe pensato impossibile, ma naturalmente avrebbe ritenuto impossibile che un bambino nascesse sveglio e vigile, con i denti in bocca e un'erezione. Eppure per ogni altro verso le sembrava del tutto normale: grassottello e ben formato, umano e per questo adorabile. C'era quel segno rosso sul tallone, sì, ma quanti altri bambini, normali in tutto e per tutto, nascevano con una voglia di questa o quella forma? Secondo una leggenda di famiglia, suo padre stesso non era forse nato con una mano rampante? Quello era un segno che non avrebbe visto mai nessuno, se non quando il bambino fosse stato in spiaggia.
Sempre tenendo il neonato all'altezza del proprio volto, Scowther guardò Sayre. Ci fu una breve pausa durante la quale Susannah avrebbe potuto facilmente impossessarsi dell'automatica di Scowther. Non ci pensò neppure. Aveva scordato l'invocazione telepatica di Jake, aveva slmilmente dimenticato la strana visita ricevuta da Roland e suo marito. Era rapita come gli altri, Jey e Straw e Haber e l'intera congrega, incantata in quel momento dall'arrivo di un nuovo nato in un mondo consunto.
Sayre annuì quasi impercettibilmente e Scowther abbassò il piccolo Mordred, che ancora frignava (e ancora guardava oltre la propria spalla, cercando apparentemente la madre), tra le braccia protese di Mia.
Mia lo girò immediatamente per poterlo guardare e il cuore di Susannah fu gelato da una frustata di sgomento e orrore. Perché Mia era impazzita. La pazzia le brillava negli occhi; era nel modo in cui la sua bocca riusciva a ringhiare e sorridere contemporaneamente mentre dai lati le colava verso il mento bava bianca arrossata e addensata dal sangue spillato dal morso che si era data alla lingua; soprattutto era nel suo riso trionfale. Avrebbe forse ritrovato la sanità nei giorni futuri, ma...
«Quella troia non rinsavirà mai più», intervenne Detta non senza commiserazione. «Lo sforzo di arrivare fin qui e scaricare il suo fardello l'ha fottuta. È scoppiata, e lo sai meglio di me!»
«Oh, come sei bello!» tubò Mia. «Oh, guarda questi occhi blu, questa pelle bianca come il cielo prima della prima neve di Grande Terra! Guarda i tuoi capezzoli, piccoli e perfetti frutti di bosco, guarda il tuo pene e le tue palle lisce come pesche novelle!» Guardò intorno a sé, prima Susannah, scivolando con lo sguardo sul viso di lei senza assolutamente riconoscerla, poi gli altri. «Guardate il mio tizio, voi sventurati, voi gonick, il mio tesoro, il mio bambino, il mio maschietto!» Gridava, pretendeva, ridendo con i suoi occhi folli e piangendo con la sua bocca storta. «Guardate la ragione per cui ho rinunciato all'eternità! Guardate il mio Mordred, guardatelo molto bene, perché non ne vedrete mai altro uguale!»
Ansimando pesantemente, coprì di baci il viso insanguinato e sorpreso del neonato, sporcandosi la bocca fino a sembrare un'ubriaca che avesse tentato di applicarsi del rossetto alle labbra. Rise e baciò il tenero collare che era il doppio mento del suo infante, e gli baciò i capezzoli, l'ombelico, la punta protesa del pene e, tenendolo in alto e sempre più su con le braccia tremanti, sotto la buffa espressione di stupore del bambino che intendeva chiamare Mordred, gli baciò le ginocchia e poi, uno dopo l'altro, i piedi minuscoli. Susannah udì quel primo suono di risucchio: non del neonato al seno di sua madre, ma della bocca di Mia su ciascuno di quei ditini dalla forma perfetta.
3
Tuo figlio è la condanna a morte del mio dinh, pensò freddamente Susannah. A costo della vita potrei prendere la pistola di Scowther e sparargli. Sarebbe questione di due secondi.
Data la sua velocità, la sua soprannaturale velocità da pistolera, era probabilmente vero. Ma si ritrovò incapace di muoversi. Aveva previsto molti esiti diversi a conclusione di quella scena, ma non la pazzia di Mia, quella mai, e ne era stata colta completamente alla sprovvista. Indugiò per un istante a riflettere sulla fortuna che aveva avuto per essersi scollegata in tempo. Se il congegno della Positronics fosse stato ancora in funzione, ora probabilmente sarebbe stata pazza anche lei.
E potrebbe essere riattivato in qualsiasi momento, bella mia... non credi che faresti meglio a muoverti finché puoi?
Ma non poteva, quello era il suo problema, era paralizzata dalla meraviglia, inchiodata dall'incantesimo.
«Piantala!» ordinò stizzito Sayre. «Tu devi nutrirlo, non sbavarci sopra! Se vuoi tenerlo, sbrigati! Fallo poppare! O devo chiamare una balia? Ce ne sono molte che darebbero gli occhi per poterlo fare!»
«Mai... e... poi... MAI!» strillò Mia e rise, ma si abbassò il bimbo al seno e scostò con un gesto impaziente la scollatura della semplice casacca bianca che indossava, scoprendo il capezzolo destro. Susannah capì perché potesse esercitare una così irresistibile influenza sugli uomini: anche in quelle condizioni il suo seno era perfetto, una sfera con la punta di corallo che sembrava più adatta alla mano di un uomo, alla sua concupiscenza, che a nutrire un neonato. Mia vi avvicinò il tizio. Per un momento grufolò nella maniera comica con cui l'aveva guardata poco prima, colpendo il capezzolo e dando l'impressione di rimbalzare all'indietro. Quando vi si avvicinò di nuovo, però, la rosa della sua piccola bocca si chiuse sul bocciolo eretto del seno di lei e cominciò a succhiare.
Sempre ridendo, Mia accarezzò i suoi riccioli neri, aggrovigliati e sporchi di sangue. Erano risate che alle orecchie di Susannah suonavano come urla.
Un rumore sordo di passi annunciò l'arrivo di un robot. Somigliava parecchio a Andy, il Robot Messaggero, stessa struttura magra sui due metri e mezzo di statura, stessi occhi blu elettrico, stessa corporatura scintillante e piena di articolazioni. Portava sulle braccia uno scatolone di vetro pieno di luce verde.
«E quello a che cazzo serve?» protestò Sayre. Era insieme adirato e incredulo.
«Un'incubatrice», rispose Scowther. «Ho pensato che fosse meglio non lasciare nulla al caso.»
Quando si girò, la pistola nella fondina ascellare dondolò in direzione di Susannah. Le si presentò così un'occasione ancora migliore, la migliore di tutte, e se ne rese conto, ma prima che potesse estrarla, il tizio di Mia trasmutò.
4
Susannah vide una luce rossa correre sulla pelle levigata del bimbo, dai capelli fino alla macchia sul tallone del piede destro. Non fu un rossore bensì un lampo, che illuminò il bimbo da dentro: Susannah lo avrebbe giurato. Poi, mentre il bambino giaceva sul ventre sgonfiato di Mia con le labbra strette sul suo capezzolo, il lampo rosso fu seguito da un'ombra nera che si levò e si espanse, trasformandolo in uno gnomo buio, la negazione stessa del roseo neonato uscito dall'utero di Mia. Contemporaneamente il suo corpo cominciò ad avvizzirsi, le gambe si ritirarono e si fusero con l'addome, la testa scivolò all'ingiù, trascinando con sé il seno di Mia, rientrando nel collo, che si gonfiò come la gola di un rospo. I suoi occhi passarono dall'azzurro al nero catrame, poi di nuovo al blu.
Susannah cercò di gridare e non poté.
Sulla superficie nera della nuova creatura spuntarono escrescenze, che subito dopo si squarciarono lasciando emergere delle gambe. La macchia rossa del tallone era ancora visibile, ma ora era diventata un grumo come il marchio cremisi sul ventre di una vedova nera. Perché quello era l'essere in cui si era trasformato: un ragno. Eppure il bambino non era scomparso del tutto. Dal dorso del ragno spuntò un tumore bianco. In esso Susannah scorse una minuscola faccia deforme e due scintille blu che erano gli occhi.
«Cosa?...» cominciò Mia e tentò di nuovo di sollevarsi sui gomiti. Dal seno aveva iniziato a uscirle del sangue. Il bambino lo bevve come fosse latte, senza lasciarsene scappare una sola goccia. Vicino a lei, Sayre era immobile come una figura scolpita, con la bocca aperta e gli occhi che gli sporgevano dalle orbite. Qualunque cosa si fosse aspettato da quella nascita, qualunque cosa gli fosse stato detto di aspettarsi, non era quello che vedeva. La Detta che c'era in Susannah trasse un maligno piacere infantile nel guardare quell'espressione sbalordita: sembrava Jack Benny in uno dei suoi numeri strapparisate.
Per un momento solo Mia sembrò rendersi conto di che cosa stava accadendo, perché il suo volto cominciò ad allungarsi in una maschera informe di orrore e, forse, dolore. Poi il sorriso riapparve, quel sorriso angelico da effigie religiosa. Allungò la mano e accarezzò il mostro che ancora si andava trasformando al suo seno. Il ragno nero con la minuscola testa umana e la bolla rossa sul ventre irsuto.
«Non è bellissimo?» proruppe. «Non è bellissimo mio figlio, bello come il sole d'estate?»
Furono le sue ultime parole.
5
Non si può dire che il suo volto si paralizzò, ma di certo si fermò. Le sue guance e fronte e gola, colorite fino a poco prima dagli sforzi del parto, si spensero nel biancore cereo di un petalo d'orchidea. I suoi occhi brillanti sostarono fissi al centro delle orbite. E a un tratto fu come se Susannah non stesse guardando una donna distesa su un letto, ma il disegno di una donna. E di straordinaria fattura, se è per questo, ciononostante qualcosa che esisteva solo nella forma di linee di carboncino e qualche pallida coloritura su un foglio di carta.
Ricordò com'era tornata al Plaza-Park Hyatt dopo la sua prima visita al cammino di Castello Discordia e come era giunta lì, a Fedic, dopo il suo ultimo conciliabolo con Mia, al riparo della merlatura. Come il cielo e il castello e ogni pietra della merlatura si fossero spalancati. E allora, come se fosse stato il suo pensiero a provocarlo, il volto di Mia si lacerò dall'attaccatura dei capelli fino al mento. Gli occhi fissi e opachi caddero di sbieco di qua e di là. Le labbra si spaccarono in un folle ghigno raddoppiato. E non fu sangue quello che scaturì dagli squarci che si andavano aprendo nella sua faccia, bensì una polvere bianca dall'odore di stantio. Susannah ritrovò nella memoria un frammento di T.S. Eliot
(uomini cavi uomini impagliati teste piene di paglia)
e Lewis Carroll
(non siete che un mazzo di carte)
prima che il dan-tete di Mia rialzasse la testa raccapricciante dal suo primo pasto. La sua bocca lorda di sangue si aprì e le zampe posteriori annasparono cercando presa sul ventre sempre più convesso della madre, mentre quelle anteriori sembravano quasi fingere colpi da pugile in direzione di Susannah.
Squittì di trionfo e se avesse scelto quel momento per aggredire l'altra donna che lo aveva nutrito dentro di sé, Susannah Dean sarebbe certamente morta con Mia. Tornò invece alla sacca sgonfia del seno dal quale aveva prelevato la sua prima poppata e la strappò via. La masticò producendo orribili sciacquii. Un attimo dopo si tuffò nell'apertura rimasta nel petto di lei e la sua bianca faccia umana scomparve mentre quella di Mia finiva di esaurirsi nella polvere che le usciva come ribollendo dalla testa implosa. Ci fu un forte rumore di risucchio, quasi industriale, e Susannah pensò: Sta estraendo da lei tutti i liquidi, tutti quelli che le sono rimasti. E guarda! Guarda come si gonfia! Come una sanguisuga sul collo di un cavallo!
Proprio allora una ridicola voce dall'accento britannico - era il tono compito del paradigma stesso del gentiluomo - cantilenò: «Chiedo scusa, signori, ma pensate ancora di utilizzare questa incubatrice? Perché la situazione si è un po' modificata, se mi è concesso farlo rilevare».
Sciolse Susannah dalla sua paralisi. Si alzò puntellandosi con una mano e con l'altra afferrò l'automatica di Scowther. Tirò con forza, ma l'arma era trattenuta da un laccio. Tastando con l'indice, trovò il minuscolo cursore della sicura e lo spinse. Ruotò quindi la pistola con tutta quanta la fondina verso la scatola toracica di Scowther.
«Cosa dia...» cominciò lui, poi lei premette il grilletto con il medio mentre contemporaneamente strattonava con tutte le forze che aveva l'imbracatura a cui era agganciata la fondina. Le cinghie principali ressero, ma quelle più sottili che trattenevano l'automatica si strapparono e, mentre Scowther cadeva di lato cercando di guardare il foro nero e fumante che aveva nel camice bianco, Susannah s'impadronì del tutto della sua arma. Sparò a Straw e al vampiro che gli era accanto, quello con la spada elettrica. Per un momento il vampiro fu ancora lì, con gli occhi fissi sul dio-ragno che all'inizio era sembrato un bambino, poi la sua aura svanì. Con essa scomparve anche il corpo del vampiro. Per qualche attimo al suo posto rimase una camicia vuota infilata in un paio di blue jeans vuoti. Poi gli indumenti si afflosciarono.
«Uccidetela!» urlò Sayre mettendo mano alla propria pistola. «Uccìdete quella troia!»
Rotolando, Susannah si allontanò dal ragno accovacciato sul corpo della madre che sotto di esso si andava rapidamente sgonfiando. Mentre cadeva dal letto, si strappò dalla testa la calotta. Provò un dolore lancinante quando applicò pressione temendo di non poterla staccare, ma un istante dopo era sul pavimento, libera. La calotta rimase appesa oltre il bordo del letto, orlata dai suoi capelli. L'essere-ragno, strappato per un momento dalla sua sede quando il corpo di sua madre sussultò, mandò uno stridio di collera.
Susannah rotolò sotto il letto mentre sopra di lei partiva una serie di spari. Una pallottola colpì una molla che emise un forte tremolio melodico. Susannah vide i piedi e le gambe pelose dell'infermiera con la testa di topo e le piantò un proiettile in un ginocchio. L'infermiera lanciò un urlo, ruotò su se stessa e cominciò a scappare zoppicando e sbraitando.
Sayre si protese puntando la pistola appena oltre il corpo accasciato di Mia. Nel letto c'erano già tre fori fumanti. Prima che potesse aggiungerne un quarto, una delle zampe del ragno gli accarezzò la guancia, strappando la maschera che indossava ed esponendo il pelo sottostante. Sayre si ritrasse con un grido. Il ragno si girò verso di lui e mandò un miagolio. La cosa bianca che aveva sul dorso, un nodulo con un volto umano, parve ammonire Sayre con lo sguardo a stare lontano dal suo pasto. Poi tornò alla donna, che per la verità non era più riconoscibile in quanto tale; sul letto c'erano ora i resti di una mummia di età incommensurabile, ridotta ormai a polvere e stracci.
«Mi sia concesso, ma tutto questo mi sembra un po' caotico», commentò il robot con l'incubatrice. «Devo ritirarmi? Forse è meglio che torni quando la situazione si sarà chiarita.»
Susannah invertì la direzione, rotolando fuori da sotto il letto. Vide che due degli uomini bassi avevano alzato i tacchi. Jey, l'uomo-falco, sembrava incapace di prendere una decisione. Restare o andare? La prese Susannah per lui, piazzandogli un colpo preciso nella fronte pennuta. Volarono sangue e piume.
Si alzò come meglio poteva, aggrappandosi alla sponda del letto per sostenersi e tendendo il braccio armato davanti a sé. Ne aveva uccisi quattro. L'infermiera con la testa di topo e un altro erano fuggiti. Sayre aveva lasciato cadere la pistola e stava cercando di nascondersi dietro il robot con l'incubatrice.
Susannah liquidò gli ultimi due vampiri e l'uomo basso con la faccia da bulldog. Costui, Haber, non si era scordato di lei; era rimasto al suo posto in attesa del momento propizio. Susannah era stata più veloce di lui e ora, con profonda soddisfazione, lo guardò stramazzare all'indietro. È stato il più pericoloso, pensò.
«Signora, mi chiedevo se potesse spiegarmi...» cominciò il robot e Susannah scaricò due rapidi colpi nella sua testa di metallo spegnendo i suoi occhi blu. Era un trucco che aveva imparato da Eddie. Partì immediatamente una sirena gigantesca. Susannah temette che ascoltandola troppo a lungo ne sarebbe stata assordata.
«SONO STATO ACCECATO DA COLPI D'ARMA DA FUOCO!» tuonò il robot, senza perdere il suo assurdo accento da desidera-un'altra-tazza-di-té-madame. «VISIONE ZERO, HO BISOGNO DI AIUTO, CODICE 7, RIPETO AIUTO!»
Sayre si allontanò dal robot a mani alzate. Con quella sirena e le esternazioni del robot, Susannah non poteva udirlo, ma lesse le parole sulle labbra del bastardo: Mi arrendo, vuoi accettare la mia parola?
Susannah sorrise a quell'idea divertente, senza accorgersi di sorridere. Fu un sorriso privo di piacere e privo di pietà e significava una sola cosa. Avrebbe voluto obbligarlo a leccarle i moncherini, come lui aveva obbligato Mia a leccargli gli stivali. Ma non c'era tempo. Lui lesse il proprio destino nel sorriso di lei e si girò per scappare e Susannah gli sparò due volte nella nuca, una per Mia e una per Père Callahan. Il cranio di Sayre si sgretolò in un turbinio di sangue e cervello. Si appese al muro, annaspò sul ripiano carico di attrezzature e scorte, e piombò a terra morto.
Ora Susannah puntò l'arma sul dio-ragno. La minuscola testa umana sul dorso ispido e nero si girò verso di lei. Dagli occhi azzurri, così incredibilmente simili a quelli di Roland, si sprigionò un lampo.
No, non puoi! Non devi! Perché io sono il solo figlio del Re!
Non posso? Rispose mentalmente lei spianando l'automatica. Oh, zuccherino, come... ti... SBAGLI!
Ma prima che potesse premere il grilletto, alle sue spalle echeggiò uno sparo. Un proiettile le ustionò il collo. Susannah reagì all'istante, voltandosi e gettandosi lateralmente tra due letti. Uno degli uomini bassi fuggiti poco prima aveva ritrovato il coraggio ed era tornato sui suoi passi. Susannah glielo fece rimpiangere con due pallottole al petto.
Si girò, desiderosa di trovare altri bersagli - sì, era quello che voleva, quello per cui era stata creata, e avrebbe sempre riverito Roland per averglielo fatto scoprire - ma gli altri erano o morti o in fuga. Il ragno corse giù dal letto con le sue molte zampe, lasciando dietro di sé il cadavere di cartapesta di sua madre. Girò per un istante verso di lei la bianca testa da neonato.
Farai bene a lasciarmi passare, muso nero, se non...
Susannah sparò, ma mentre premeva il grilletto inciampò sulla mano protesa dell'uomo-falco. Il proiettile che avrebbe ucciso l'abominevole creatura fu sviato e fece saltar via una delle otto zampe pelose della bestia. Un liquido rosso e giallastro, più simile a pus che a sangue, sprizzò dal punto in cui la zampa era articolata al corpo. L'essere strillò di dolore e sorpresa, la porzione udibile di quel grido fu quasi del tutto ingoiata dal ciclico ululato della sirena del robot, ma Susannah lo sentì forte e chiaro dentro la testa.
Te la farò pagare per questo! Io e mio padre, noi, te la faremo pagare! Ti faremo invocare la morte, credimi!
Non ne avrai l'occasione, dolcezza, fu il messaggio che inviò Susannah in risposta, cercando di proiettare su di esso tutta la fiducia in sé di cui era capace per impedire alla cosa di intuire il suo timore: che l'automatica di Scowther fosse scarica. Prese la mira con una posa fin troppo plateale e il ragno si diede precipitosamente alla fuga, sfrecciando prima dietro il robot e la sua incessante sirena e quindi attraverso una porta buia.
Bene. Niente di cui rallegrarsi, senz'altro non la migliore delle soluzioni, ma era ancora viva e questo era già un fatto importante.
E il fatto che tutta la ciurmaglia di sai Sayre era morta o fuggita? Anche quello non era malaccio.
Gettò via la pistola di Scowther e ne scelse un'altra, una Walther PPK. La estrasse dalla presa del portuale di Straw, poi frugò nelle tasche del morto, dove trovò una mezza dozzina di caricatori di ricambio. Valutò per un istante se aggiungere al suo arsenale la spada elettrica del vampiro e decise di lasciarla dov'era. Meglio gli strumenti che si conoscono di quelli di cui non si sa nulla.
Cercò di mettersi in contatto con Jake, non riuscì a udire i propri pensieri e si rivolse al robot. Ehi, tu! Spegni quella dannata sirena, vuoi?
Non pensava che sarebbe servito, invece funzionò. Il silenzio fu immediato e splendido, aveva la consistenza sensuale della seta moiré. Il silenzio poteva essere utile. Se ci fosse stato un contrattacco, li avrebbe sentiti arrivare. E la sporca verità? Sperava in un contrattacco, voleva che tornassero, e pazienza se non c'era logica nei suoi sentimenti. Aveva una pistola carica e si sentiva non meno carica lei stessa. Solo quello contava.
(Jake! Jake, mi senti, ragazzo mio! Se mi senti, rispondi alla tua sorellona!)
Niente. Nemmeno il crepitare di una sparatoria in lontananza. Era uscito da...
Poi una singola parola... se era una parola:
(wimeweh)
ma soprattutto era Jake?
Non poteva giurarlo, ma pensava che fosse lui. E a suo modo anche quella parola le sembrava familiare.
Susannah raccolse tutta la concentrazione con il proposito di chiamare di nuovo ma con maggiore energia, ma in quell'attimo le venne un'idea strana, troppo forte per poterla definire intuizione. Jake si sforzava di non farsi sentire. Si stava... nascondendo? Forse preparandosi a tendere un'imboscata? Balzana, come idea, ma forse anche lui era carico al massimo. Chissà, forse quella parola stramba
(wimeweh)
le era stata inviata volutamente, ma forse gli era solo scappata. Meglio comunque non disturbarlo almeno per un po'.
«Dico, sono stato accecato da colpi d'arma da fuoco!» ripeté il robot. La sua voce era ancora potente, ma il volume era sceso a un livello che quanto meno si avvicinava alla normalità. «Non vedo un fico secco e ho questa incubatrice...»
«Mollala», disse Susannah.
«Ma...»
«Mollala, Ferraglia.»
«Chiedo scusa, madame, ma il mio nome è Nigel il Maggiordomo e veramente non posso...»
Durante quel piccolo botta e risposta Susannah si era trascinata più vicina al robot - scoprendo che, solo per aver ottenuto una breve vacanza provvista di gambe, non ci si dimenticavano le antiche manovre di locomozione - e ora lesse il nome e il numero di serie sul suo ventre cromato.
«Nigel DNK 45932, molla quel cazzo di scatola di vetro, dico grazie!»
Il robot (DOMESTICO c'era scritto subito sotto il numero di serie) lasciò cadere l'incubatrice e, quando il contenitore andò in pezzi ai suoi piedi d'acciaio, si mise a piagnucolare.
Susannah lo raggiunse faticosamente e scoprì di dover dominare una momentanea paura prima di allungare la mano verso quella metallica e a tre dita dell'uomo-macchina. Dovette ricordare a se stessa che non era Andy di Calla Bryn Sturgis, né Nigel poteva sapere dell'esistenza di Andy. Forse il robot-maggiordomo non era tanto sofisticato da poter sviluppare desiderio di vendetta - com'era stato invece nel caso di Andy - ma sicuramente non poteva avere reazioni a fatti di cui non era a conoscenza.
Così sperava.
«Tirami su, Nigel.»
Il robot si chinò in un ronzio di servomotori.
«No, caro, devi venire un po' più avanti. Lì ci sono cocci di vetro.»
«Chiedo scusa, madame, ma sono cieco. Credo che sia stata lei a spararmi negli occhi.»
«Be'», rispose Susannah sperando che il tono d'irritazione dissimulasse la paura sottostante, «non potrò certo procurartene di nuovi se non mi tiri su, giusto? Ora vieni un pochettino più avanti, se ti è gradito. Il tempo scappa.»
Nigel ubbidì, schiacciando cocci di vetro sotto i piedi, procedendo in direzione del suono della sua voce. Susannah controllò l'istinto di ritrarsi, ma quando il Robot Domestico l'ebbe presa, trovò la sua stretta più che delicata. Fu sollevata tra le sue braccia.
«Ora portami alla porta.»
«Madame, chiedo scusa, ma ci sono molte porte al Sedici. Altre ancora sotto il Castello.»
«Quante?»
«Direi...» Una breve pausa. «Direi cinquecentonovantacinque attualmente operative.» Susannah notò subito che sommando cinque più nove più cinque si otteneva diciannove. Si otteneva chassit.
«Ti spiacerebbe trasportarmi a quella che hanno usato per portarmi qui?» Indicò il fondo della stanza.
«No, madame, non mi spiace affatto, ma purtroppo devo dirle che non le servirà.» Nigel lo dichiarò nel suo tono pomposo. «Quella porta, New York #7/Fedic, è a senso unico.» Una pausa. Relè scattarono sotto la cupola d'acciaio della sua testa. «Inoltre, dopo l'ultima volta che è stata usata, è bruciata. È, potremmo dire, andata alla radura in fondo al sentiero.»
«Ah, ma che bellezza!» esclamò Susannah, ma sapeva di non essere veramente sorpresa dalla notizia che le aveva dato Nigel. Ricordava il mugolio distorto che aveva udito un attimo prima che Sayre la spingesse attraverso, ricordava di aver pensato che era il gemito di una cosa morente. E... sì, era morta. «Che bellezza davvero!»
«La sento contrariata, madame.»
«Puoi dirlo forte, che sono contrariata! Era già una bella fregatura che fosse a senso unico! Ora si è anche chiusa definitivamente!»
«Rimane quella di default», obiettò Nigel.
«Default? Cosa sarebbe questo default?»
«Sarebbe la New York #9/Fedic, rispose lui. «Un tempo c'erano più di trenta portali a senso unico tra New York e Fedic, ma credo che ormai resti solo il numero #9. Tutti i comandi relativi a New York #7/Fedic sono stati trasferiti di default al numero #9.»
Chassit, pensò Susannah... quasi lo pregò. Sta parlando di chassit. Credo. Oh Dio, spero che sia così.
«Intendi parole d'ordine e tutto il resto, Nigel?»
«Oh sì, madame.»
«Portami alla numero nove!»
«Come desidera.»
Nigel risalì a passo sostenuto il corridoio tra le centinaia di letti vuoti, su cui le lenzuola bianche e tese brillavano della luce riflessa delle forti plafoniere. Per un momento l'immaginazione popolò la mente di Susannah di grida di bambini impauriti, appena arrivati da Calla Bryn Sturgis, forse anche dai Calla circostanti. Non vide una sola infermiera con la testa di topo, ma ne vide a battaglioni, ansiose di applicare le calotte sulla testa dei bimbi rapiti e dare inizio al processo che... che cosa? Che li guastava, in un certo senso. Risucchiava dalla loro testa l'intelligenza e sconvolgeva i loro ormoni della crescita, rovinandoli per sempre. Probabilmente all'inizio si sentivano confortati dalla voce piacevole che udivano nel cervello, la voce che dava loro il benvenuto nel mondo favoloso della North Central Positronics e della Sombra. Avrebbero smesso di piangere, con gli occhi colmi di speranza. Forse avrebbero pensato che le infermiere nelle loro divise bianche fossero buone nonostante il loro spaventoso muso ispido e le loro zanne gialle. Buone come la voce della cara signora.
Poi sarebbe cominciato il ronzio e sarebbe cresciuto di volume spostandosi verso il centro della loro testa e lo stanzone si sarebbe riempito di nuovo delle loro urla di terrore...
«Madame? Tutto bene?»
«Sì. Perché me lo chiedi, Nigel?»
«Mi è sembrato di sentirla rabbrividire.»
«Non ci pensare. Tu conducimi alla porta per New York, quella che funziona ancora.»
6
Uscito dall'infermeria, Nigel la trasportò veloce prima per un corridoio, poi per un altro. Giunsero a delle scale mobili che sembravano ferme da secoli. A metà della loro discesa, una sfera d'acciaio con le gambe fece balenare gli occhi ambra. «Howp! Howp!» esclamò a Nigel, il quale rispose: «Howp, howp!» e quindi si rivolse a Susannah (nel tono confidenziale che certi pettegoli adottano quando discutono dei «meno fortunati»): «È un caporeparto Mech ed è inchiodato lì da più di ottocento anni. Schede fritte, immagino. Poveretto! Ma si sforza di fare ancora del suo meglio».
Due volte Nigel le chiese se riteneva che i suoi occhi potessero essere rimpiazzati. La prima volta Susannah gli rispose che non lo sapeva. La seconda, provando un po' di compassione per lui (lo considerava un essere vivente ormai), volle sapere quale fosse la sua opinione.
«Credo che i miei giorni di servizio siano al termine», disse il robot. Poi aggiunse qualcosa che le fece formicolare la pelle delle braccia: «O Discordia!»
I Fratelli Diem sono morti, pensò, ricordando - era stato un sogno? Una visione? Uno scorcio della sua Torre? - qualcosa della sua avventura con Mia. O risaliva ai suoi tempi di Oxford, nel Mississippi? O entrambe le cose? Papa Doc Duvalier è morto. Christa McAuliffe è morta. Stephen King è morto, popolare scrittore ucciso durante passeggiata pomeridiana, O Discordia, O perduta!
Ma chi era Stephen King? E chi era Christa McAuliffe, se è per questo?
A un certo punto incrociarono un uomo basso di quelli che erano stati presenti alla nascita del mostro di Mia. Era raggomitolato come un gambero umano sul pavimento polveroso di un corridoio con la pistola in mano e un foro nella testa. Doveva essersi ucciso da sé. Aveva una sua logica, in un certo senso. Perché era andato tutto storto, no? E se il figlio di Mia non avesse trovato la propria destinazione da solo, Paparone Rosso l'avrebbe presa male. L'avrebbe presa male forse anche se Mordred fosse riuscito a tornare a casa.
Il suo altro padre. Perché quello era un mondo di gemelli e immagini speculari e ora Susannah comprendeva di ciò che vedeva più di quanto realmente desiderasse. Anche Mordred era un gemello, una creatura alla Jekyll-e-Hyde con due personalità, e aveva da ricordare, essere umano o no, i volti di due padri.
S'imbatterono in altri cadaveri, tutti suicidi, a giudizio di Susannah. Chiese a Nigel se era in grado di stabilirlo, dall'odore o da qualcos'altro, ma lui rispose che gli era impossibile.
«Quanti ce ne sono ancora, secondo te?» domandò lei. Aveva avuto tempo di placare un po' l'animo e adesso cominciava a sentirsi nervosa.
«Non molti, madame. Credo che se ne siano andati quasi tutti. Molto probabilmente al Derva.»
«Che cos'è il Derva?»
Nigel rispose che era profondamente desolato, ma l'informazione era riservata ed era accessibile solo con la giusta parola d'ordine. Susannah provò chassit, ma non funzionò. Non ottenne risultati nemmeno con diciannove o novantanove, che fu il suo ultimo tentativo. Avrebbe dovuto accontentarsi di sapere che per la maggior parte non c'erano più.
Nigel girò a sinistra imboccando un nuovo corridoio con porte su entrambi i lati. Susannah lo fece fermare per provarne una, ma dentro non c'era nulla di particolarmente interessante. Era un ufficio abbandonato da tempo, a giudicare dal denso strato di polvere. La incuriosì il manifesto appeso a una parete con l'immagine di alcuni adolescenti che ballavano freneticamente. Sotto di essa, a grandi lettere blu, c'era questa scritta:
EHI ROCCHETTARI E ROCCHETTINE!
IO HO ROCCATO CON ALAN FREED!
CLEVELAND, OHIO, OTTOBRE 1954
Susannah era sicura che sul palcoscenico si stesse esibendo Richard Penniman. I frequentatori di dancing come lei manifestavano disprezzo per ogni forma di rock più duro di quello di Phil Ochs, ma sotto sotto Suze aveva sempre avuto un debole per Little Richard: Good golly, miss Molly, you sure like to ball. Doveva esserci lo zampino di Detta...
Ma questa gente usava le proprie porte per andarsene in vacanza scegliendo di volta in volta un dove e quando? Usavano il potere dei Vettori per trasformare certi livelli della Torre in attrazioni turistiche?
Lo chiese a Nigel, il quale le rispose di essere sicuro di non saperlo. Nigel sembrava ancora rattristato per la perdita degli occhi.
Giunsero finalmente in un'echeggiante rotonda con porte che si aprivano in tutta la sua ampia circonferenza. Le piastrelle di marmo del pavimento formavano una scacchiera bianca e nera che Susannah ricordò di aver visto in certi sogni tormentati nei quali Mia nutriva il suo tizio. Sopra di lei, su e su, costellazioni di stelle elettriche ammiccavano in un firmamento azzurro che ora era devastato da una miriade di crepe. Quel luogo le ricordava la Culla di Lud, ma ancor più la Grand Central Station. Dietro le pareti rumoreggiavano macchinari, condizionatori d'aria o scambiatori. L'odore era vagamente familiare e dopo qualche sforzo Susannah lo identificò: Comet Cleanser. Sponsorizzavano Il prezzo è giusto, che qualche volta guardava alla TV se le capitava di essere a casa di mattina. «Sono Don Pardo, e ora a voi Mister Bill Cullen!» Susannah ebbe un attacco di vertigini e chiuse gli occhi.
Bill Cullen è morto. Don Pardo è morto. Martin Luther King è morto, ucciso a Memphis. Sia fatta la volontà di Discordia!
Oh Cristo, quelle voci, perché non tacevano?
Aprì gli occhi e vide porte contrassegnate con SHANGAI/FEDIC e BOMBAY/FEDIC e una con la scritta DALLAS (NOVEMBRE 1963)/FEDIC. Su altre la scritta era in geroglifici che per lei non avevano alcun significato. Nigel si fermò infine davanti a una scritta che riconobbe.
NORTH CENTRAL POSITRONICS, LTD.
NEW YORK/FEDIC
MASSIMA SICUREZZA
Era la stessa che si trovava sull'altro lato, solo che al posto di RICHIESTO CODICE VERBALE D'ACCESSO, subito sotto lampeggiava sinistra in rosso questo avviso:
#9 DEFAULT FINALE
7
«Che cosa vuole fare ora, madame?» chiese Nigel.
«Mettimi giù, dolcezza.»
Ebbe tempo di domandarsi come avrebbe reagito se Nigel avesse rifiutato di ubbidire, ma il robot non esitò. Strisciò fino alla porta e vi posò contro le mani. La sensazione che provò non fu né di legno né di metallo. Le parve di udire un ronzio molto sottile. Valutò se tentare con chassit, la sua versione dell'apriti sesamo di Alì Baba, ma rinunciò. Non c'era nemmeno una maniglia. Se il passaggio era in un senso solo, c'era poco da rimuginare.
(JAKE!)
Lo spedì con tutte le forze.
Nessuna risposta. Neppure quel fievole
(wimeweh)
verso senza senso. Attese ancora un istante, poi si girò a sedersi con la schiena contro la porta. Si lasciò cadere tra le ginocchia divaricate le munizioni di riserva e alzò la Walther PPK nella mano destra. Una buona arma da avere con la schiena a una porta sprangata, rifletté; il suo peso la rassicurava. In un lontano passato lei e altri erano stati addestrati a una tecnica di protesta che si chiamava resistenza passiva. Ci si sdraiava per terra e ci si copriva con le mani ventre e genitali, non si rispondeva a quelli che ti picchiavano e oltraggiavano te e i tuoi genitori. Si cantava «in catene, come il mare». Che cosa avrebbero pensato i suoi amici se l'avessero vista adesso?
«Sai una cosa?» sbottò. «Non me ne frega un cazzo. Anche la resistenza passiva è morta.»
«Madame?»
«Niente, Nigel.»
«Madame, posso chiederle...»
«Che cosa sto facendo?»
«Precisamente, madame.»
«Aspetto un amico, Ferraglia. Semplicemente aspettando un amico.»
Pensò che il robot le avrebbe rammentato che il suo nome era Nigel, ma non lo fece. Le domandò viceversa per quanto tempo avrebbe aspettato il suo amico. Susannah gli rispose fino a quando si fosse ghiacciato l'inferno. Queste parole provocarono un silenzio prolungato. Alla fine Nigel chiese: «Allora posso andare, madame?»
«Come farai a vedere?»
«Sono passato agli infrarossi. È meno soddisfacente della macrovisione tre-X, ma mi basterà per ritrovare l'officina.»
«E in officina c'è qualcuno che può ripararti?» domandò distrattamente Susannah. Schiacciò il bottone che fece scivolare fuori il caricatore dal calcio della Walther, poi lo reinserì, provando un piacere elementare nel rumore metallico e ben lubrificato dello scatto.
«Sono sicuro di non saperlo, madame», rispose Nigel, «sebbene la probabilità di un simile evento sia molto bassa, di certo inferiore all'uno per cento. Se non viene nessuno, allora anch'io, come lei, aspetterò.»
Susannah annuì, improvvisamente stanca e più sicura che mai che lì stesse avendo termine il suo lungo viaggio, in quel luogo, appoggiata a quella porta. Ma non ci si arrende, vero? Arrendersi è per i codardi, non per i pistoleri.
«Che ti sia gradito, Nigel, grazie per avermi trasportata. Lunghi giorni e piacevoli notti. Spero che ti rimettano gli occhi. Mi spiace di averteli distrutti, ma ero in una situazione un po' complicata e non sapevo da che parte fossi.»
«E auguri a lei, madame.»
Susannah annuì. Nigel ripartì e allora fu sola, appoggiata alla porta per New York. In attesa di Jake. In ascolto di Jake.
Tutto quello che sentì fu l'ansimare rugginoso e morente dei macchinari nei muri.
5
«In the jungle,
the mighty jungle»
1
Se Jake non morì accanto al Père, fu solo per via della minaccia che gli uomini bassi e i vampiri uccidessero Oy. Non dovette arrovellarsi per prendere la decisione; Jake gridò
(OY, A ME!)
con tutta la forza mentale che aveva e Oy si precipitò alle sue calcagna. Jake passò davanti a uomini bassi ipnotizzati dalla tartaruga e spalancò con una manata una porta con la scritta RISERVATO AL PERSONALE. Dal bagliore arancione scuro del ristorante, Jake e Oy entrarono in una zona di brillante luce bianca, dove l'aria era pervasa dagli odori penetranti di arrosti e bolliti. Fu investito da una nuvola di vapore, caldo e umido,
(the jungle)
forse preambolo di quanto sarebbe seguito,
(the mighty jungle)
forse no. Al restringersi delle pupille, quando poté vedere di nuovo con chiarezza, riconobbe la cucina del Dixìe Pig. E non era nemmeno la prima volta che la visitava. Non molto tempo prima dell'arrivo dei Lupi a Calla Bryn Sturgis, Jake aveva seguito Susannah (solo che all'epoca era Mia) in un sogno in cui perlustrava una cucina vasta e deserta in cerca di cibo. Questa cucina, solo che stavolta era in piena attività. Su un fuoco aperto cuoceva un enorme maiale allo spiedo. A ogni goccia di grasso, le fiamme guizzavano alte attraverso una grata di ferro imbrattata di condimenti. Ai due lati, su due giganteschi piani cottura, sotto enormi cappe di rame, fumavano pentole alte quasi quanto Jake stesso. A rimestare in una di esse c'era una creatura dalla pelle grigia così raccapricciante che gli occhi di Jake non sapevano come guardarla. A incorniciarle i labbroni grigi, le sbucavano dalla bocca due zanne. Le guance pendevano in lunghi lembi sovrapposti e bitorzoluti. La tenuta bianca e macchiata di condimenti e la nuvola bianca del cappello da cuoco come un grande pop-corn costituivano una sorta di patina di normalità che riusciva solo a metterne in risalto la bruttezza da incubo. Più avanti, quasi perse nel vapore, altre due creature vestite di bianco lavavano piatti fianco a fianco a un lavello a due pozzetti. Entrambe portavano un foulard. Una era umana, un ragazzo di forse diciassette anni. L'altra di umano aveva solo le gambe, su un corpo mostruoso da felino.
«Vai, vai, los mostros pubes, tre cannits en founs!» gracchiò lo chef zannuto agli sguatteri. Non si era accorto di Jake. Uno dei due addetti al lavaggio, il felino, sì. Abbassò le orecchie e soffiò. Senza pensare, Jake scagliò l'Oriza che stringeva nella mano destra. Cantò nell'aria torbida e attraversò il collo dell'essere-gatto come un coltello in una forma di lardo. La testa, con gli occhi verdi ancora brillanti, piombò nel lavello alzando uno schizzo d'acqua insaponata.
«San fai, can dit los!» sbraitò lo chef. O non si era accorto di che cosa era accaduto, o non era in grado di comprenderlo. Si girò verso Jake. Gli occhi sotto la fronte sfuggente e merlata erano di un fosco blu-grigio, gli occhi di un essere pensante. Visto di fronte, Jake capì che cos'era: una mutazione di facocero, provvista di intelligenza. Il che significava che stava cucinando un membro della sua specie. Perfettamente in tono con il Dixie Pig.
«Can foh pube ain-tet con fah! She-so pan! Vai!» Queste parole furono indirizzate a Jake. Poi, per completare la follia: «E se non hai voglia di pulire, non cominciare neanche!»
L'altro sguattero, il ragazzo umano, stava gridando un avvertimento, ma il cuoco non gli badò. Sembrava che secondo lui, ora che aveva ucciso uno dei suoi aiutanti, Jake avesse assunto su di sé l'onore e l'onere di prendere il suo posto.
Jake lanciò l'altro piatto, che tagliò di netto la testa al facocero e mise fine ai suoi vaneggiamenti. Sui fornelli si rovesciò un'ondata di sangue che sfrigolò spargendo nell'aria uno spaventoso odore di bruciato. La testa del facocero ricadde sulla sinistra del collo e poi s'inclinò all'indietro senza staccarsi. La creatura, alta sicuramente più di due metri, barcollò spostandosi sulla sinistra e andando ad abbracciare il maiale che ruotava sullo spiedo. La testa si allentò un po' di più e finì sulla spalla destra di Chef Facocero, con un occhio fisso alle sovrastanti lampade fluorescenti avvolte nel vapore. Le mani del cuoco, incollate dal calore della cottura all'arrosto, cominciarono a fondersi. Poi l'essere cadde in avanti nelle fiamme e la sua casacca prese fuoco.
Jake si girò in tempo per vedere l'altro sguattero che gli veniva incontro armato di un coltello da macellaio e di una mannaia. Jake estrasse un altro Oriza dalla sacca ma indugiò a dispetto della voce che nella testa lo incitava a colpire, lanciare, dare a quel bastardo quello che Margaret Eisenhart aveva una volta definito «una bella rasata». Quell'espressione aveva fatto ridere di gusto le altre Sorelle di Oriza. Eppure, per quanto desiderasse lanciare, trattenne la mano.
Stava guardando un giovane la cui pelle, sotto le luci forti della cucina, era di un pallido grigio giallognolo. Sembrava denutrito e terrorizzato. Jake lo minacciò alzando il piatto e il giovane si fermò. Non stava guardando l'Oriza, però, bensì Oy, fermo tra i piedi di Jake. Il bimbolo, che aveva scoperto i denti, sembrava raddoppiato nelle sue dimensioni per via del pelo drizzato.
«Parli...» cominciò Jake e in quel momento la porta del ristorante si spalancò. Fece irruzione uno degli uomini bassi. Jake scagliò senza esitazione. Fischiò nell'aria luminosa e piena di vapore decapitando l'intruso con micidiale precisione appena sopra il pomo d'Adamo. Il corpo privo di testa s'inclinò prima a sinistra e poi a destra, come un comico che accetta un applauso con una gigioneria, quindi stramazzò.
Jake si munì immediatamente di altri due piatti, uno per mano, incrociando di nuovo le braccia davanti al petto nella posizione che sai Eisenhart chiamava «il carico». Guardò lo sguattero, ancora armato di coltello e mannaia. Tutt'altro che minaccioso, giudicò Jake. Provò di nuovo e questa volta riuscì a formulare l'intera domanda. «Parli inglese?»
«Yar», rispose il ragazzo. Lasciò cadere la mannaia per poter avvicinare il pollice e l'indice, entrambi arrossati dai lavaggi, a misurare un centimetro d'aria. «Tanto così. L'ho imparato da quando sono venuto qui.» Aprì l'altra mano e anche il coltello cadde sul pavimento.
«Vieni dal Medio-Mondo?» chiese Jake. «È da lì che vieni, vero?»
Non gli dava l'impressione di essere particolarmente sveglio («Non è un ragazzo prodigio» avrebbe senz'altro malignato Elmer Chambers), ma era comunque abbastanza sensibile da avere nostalgia di casa; Jake scorse un riflesso di quella pena negli occhi del ragazzo, sotto il velo dell'espressione atterrita. «Yar», rispose. «Viene da Ludweg, me.»
«Vicino alla città di Lud?»
«A nord, se ti piace o no», disse lo sguattero. «Tu me uccidere? Io non volere morire, anche se triste.»
«Non sarò io a ucciderti se mi dirai la verità. È passata una donna di qui?»
Lo sguattero esitò. «Aye», confessò poi. «La portavano Sayre e i suoi. Occhi chiusi, quella, la testa tutta ciondoloni...» Glielo mostrò, roteando la testa con l'aria ebete dello scemo del villaggio. Jake pensò a Sheemie, quello di cui Roland aveva raccontato dei suoi giorni a Mejis.
«Ma non morta.»
«Nar. Me l'ha sentita respirare.»
Jake guardò la porta, ma non stava arrivando nessuno. Non ancora. Era meglio che se andasse, ma...
«Come ti chiami, camerata?»
«Jochabim, sarebbe io, figlio di Hossa.»
«Allora, Jochabim, ascolta. Fuori di questa cucina c'è un mondo che si chiama New York, dove i pube come te sono liberi. Ti consiglio di uscire ora che ne hai la possibilità.»
«Loro riportare indietro me e picchiare.»
«No, tu non ti rendi conto di quanto sia grande. Come Lud quando Lud era...»
Guardò l'espressione spenta di Jochabim e pensò: No, sono io quello che non capisce. E se perdo tempo cercando di convincerlo a disertare, va a finire che mi busco esattamente quello che...
La porta dalla parte del ristorante si aprì di nuovo. Questa volta due uomini bassi cercarono di varcare contemporaneamente la stretta soglia e per un momento rimasero incastrati, spalla contro spalla. Jake lanciò entrambi i suoi piatti e li vide incrociare le rotte nell'aria, decapitando entrambi i nuovi arrivati nell'attimo in cui si disincagliavano. Caddero all'indietro e la porta si richiuse un'altra volta. Alla Piper School Jake aveva studiato la battaglia delle Termopili, il passo dove un manipolo di greci aveva tenuto in scacco truppe persiane dieci volte più numerose di loro. I greci avevano attirato il nemico in una stretta gola tra le montagne, lui aveva quella porta. Finché fossero arrivati a uno o due per volta, com'era inevitabile se non esisteva modo per aggirarlo, avrebbe potuto difendersi.
Almeno finché non avesse esaurito gli Oriza.
«Armi da fuoco?» chiese a Jochabim. «Ci sono pistole o fucili qui?»
Jochabim scosse la testa, ma data la sua irritante espressione da tonto, era difficile capire se intendeva che non c'erano armi da fuoco in cucina o che non aveva capito un'acca.
«Va bene, io vado», dichiarò. «E se non vai anche tu ora che ne hai l'occasione, Jochabim, sei ancora più stupido di quel che sembri. E vuol dire stupido parecchio. Ci sono i videogiochi là fuori, ragazzo mio. Pensaci.»
Jochabim continuò a guardarlo con quell'aria da duh e Jake si arrese. Stava per rivolgersi a Oy, quando qualcuno gli parlò attraverso la porta.
«Ehi, ragazzo!» Brusco, sicuro di sé. Smaliziato. La voce di un uomo capace di farti fesso in qualsiasi momento o andare a letto con la tua ragazza, pensò Jake. «Il tuo amico padre è morto. O per meglio dire, il padre, lo abbiamo finito. Ora vieni fuori senza tante storie e magari puoi evitare di fare da dessert.»
«Giratelo di sghimbescio e schiaffatelo su per il culo», rispose Jake. Il senso della frase fece breccia nel muro di stupidità di Jochabim: era scioccato.
«Ultima occasione», lo ammonì la voce ruvida e smaliziata. «Vieni fuori.»
«Vieni dentro tu!» ribatté Jake. «Ho piatti a volontà. In verità dominava a stento la voglia matta di avventarsi su quella porta, irrompere nel ristorante e dare battaglia agli uomini e alle donne basse che lo presidiavano. Né l'idea era così folle, come avrebbe ammesso lo stesso Roland; era l'ultima cosa che si sarebbero aspettati e c'era almeno la discreta possibilità che, con cinque o sei lanci ben piazzati, riuscisse a seminare il panico e indurii a una ritirata precipitosa.
Il problema era costituito dai mostri che banchettavano dietro l'arazzo. I vampiri. Quelli erano insensibili al panico e Jake lo sapeva. Aveva il sospetto che se gli Avi fossero riusciti a entrare in cucina (forse era solo la mancanza di interesse a trattenerli in sala da pranzo... e gli ultimi brandelli del cadavere del Père), a quell'ora sarebbe stato già morto. E anche Jochabim, con tutta probabilità.
Si abbassò su un ginocchio. «Oy», mormorò, «trova Susannah!» e rafforzò l'ordine con una rapida immagine mentale.
Il bimbolo rivolse a Jochabim un'ultima occhiata diffidente, poi cominciò ad annusare il pavimento. Le piastrelle erano umide dell'ultimo passaggio di uno straccio bagnato e Jake temette che ogni traccia fosse andata persa. Poi Oy emise un verso secco, più simile a un latrato che a una parola umana, e cominciò a trotterellare lungo un percorso che attraversava la cucina tra i fornelli e i tavoli, tenendo il naso a contatto con il pavimento, e deviando solo quando si trattò di passare intorno ai resti fumanti di Chef Facocero.
«Ascoltami, piccolo bastardo!» gridò l'uomo basso dall'altra parte della porta. «Sto perdendo la pazienza con te!»
«Bene!» lo sfidò Jake. «Entra allora! Vediamo se riesci a tornare indietro!»
Guardò Jochabim portandosi il dito alle labbra per esortarlo a fare silenzio. Era sul punto di voltarsi e seguire Oy (non sapeva per quanto ancora avrebbe resistito lo sguattero prima di urlare che il ragazzo e il suo bimbolo non tenevano più il Passo delle Termopili), quando Jochabim gli parlò a voce così bassa, che non fu sicuro di aver capito bene.
«Come?» chiese guardandolo titubante. Gli era sembrato di sentire qualcosa come attento alla trappola mentale, ma non aveva senso. O si sbagliava?
«Attento alla trappola mentale», disse Jochabim, questa volta molto più distintamente, prima di tornare alle sue stoviglie e all'acqua insaponata.
«Quale trappola mentale?» chiese Jake, ma Jochabim diede l'impressione di non aver udito e Jake non poteva trattenersi oltre per sottoporlo a un interrogatorio. Corse per raggiungere Oy, lanciandosi sguardi dietro le spalle. Se qualche altro uomo basso avesse fatto irruzione in cucina, voleva essere il primo a saperlo.
Ma non arrivò nessuno, almeno non prima che avesse seguito Oy attraverso un'altra porta e nella dispensa del ristorante, un locale buio pieno di scatoloni e odoroso di caffè e spezie. Era come il magazzino dietro all'East Stoneham General Store, solo più pulito.
2
In un angolo della dispensa del Dixie Pig c'era una porta chiusa. Da quella parte si accedeva a una scala piastrellata che scendeva Dio solo sapeva fin dove. Era illuminata da lampadine di bassa potenza protette da paralumi opachi e punteggiati di insetti. Oy cominciò a scendere senza esitare con un gioco ritmico di quarti anteriori e quarti posteriori che era quanto mai comico. Teneva il naso contro gli scalini e Jake sapeva che era sulla scia di Susannah; riceveva il messaggio dalla mente del suo piccolo amico.
Jake cercò di contare i gradini, arrivò fino a centoventi, poi perse il filo. Chissà se erano ancora a New York (o sotto di essa). A un certo punto gli parve di udire un brontolio sommesso che aveva qualcosa di familiare e concluse che se quello era un treno della metropolitana, allora erano nelle viscere della metropoli.
Arrivarono finalmente in fondo alle scale. Lì c'era una vasta area con il soffitto a volta che somigliava a una gigantesca hall d'albergo, solo senza l'albergo. Oy l'attraversò, sempre tenendo il muso rasente il suolo e agitando l'esile coda. Jake dovette correre per stargli dietro. Ora che la sacca non era più piena, gli Oriza tintinnavano al suo interno. In fondo alla hall c'era un chiosco con un cartello in una vetrina polverosa che diceva: ULTIMA OCCASIONE PER SOUVENIR DI NEW YORK e un altro con la scritta: VISITATE L'UNDICI SETTEMBRE 2001! BIGLIETTI ANCORA DISPONIBILI PER QUESTO FANTASTICO EVENTO! VIETATO AGLI ASMATICI SENZA CERTIFICATO MEDICO! Jake si chiese che cosa ci fosse stato di così fantastico l'undici settembre del 2001 e subito dopo decise che forse preferiva non saperlo.
All'improvviso, nella testa, ma forte come se qualcuno gli urlasse direttamente dentro l'orecchio, una voce disse: Ehi! Ehi tu, signora della Positronics! Sei ancora lì!
Jake non aveva idea di chi fosse la signora della Positronics, ma riconobbe la voce che faceva la domanda.
Susannah! gridò fermandosi improvvisamente all'altezza del chiosco di souvenir. Il sorriso sorpreso e gioioso che gl'increspò il volto tirato lo fece ridiventare ragazzino. Suze, sei lì?
E la sentì mandare un grido di felice sorpresa.
Oy, accortosi che Jake non era più dietro di lui, si girò a lanciare un impaziente Eik-Eik! Per un momento almeno, Jake lo ignorò.
«Sì!» gridò. «Finalmente! Dio, con chi stavi parlando? Continua a gridare così riesco a individuarti...»
Alle sue spalle, forse dalla cima delle scale o forse già dai gradini, qualcuno urlò: «È lui!» Ci furono degli spari, ma Jake quasi non li udì. Era alle prese con l'orrore di qualcosa che gli si era intrufolato nella testa. Qualcosa come una mano mentale. Pensò che fosse l'uomo basso che gli aveva parlato attraverso la porta. Che la mano dell'uomo basso avesse trovato le manopole di qualche misterioso Jake Chambers Dogan e le stesse manipolando. Stesse cercando
(di congelarmi sul posto congelarmi i piedi)
di fermarlo. E quella voce si era intromessa perché mentre inviava e riceveva, era aperto...
Jake! Jake, dove sei?
Non c'era tempo per risponderle. Una volta, mentre cercava di aprire la porta introvata nella Grotta delle Voci, Jake aveva evocato la visione di un milione di porte che si spalancavano. Ora evocò quella di una porta che si richiudeva sbattendo e provocando un tonfo potente come il bang sonico di Dio stesso.
Giusto in tempo. Per un istante ancora i piedi rimasero inchiodati al pavimento, poi qualcosa mandò un grido di dolore e si staccò da lui. Che se ne andasse pure.
Jake era di nuovo in movimento, dapprima a scatti, poi con gesti sempre più fluidi. Dio, come ci era stato vicino! Udì lontanissima la voce di Susannah che ripeteva il suo nome, ma non osò aprirsi di nuovo per rispondere. Doveva limitarsi a sperare che Oy non perdesse la sua scia e che lei continuasse a inviare messaggi.
3
Avrebbe poi concluso di essersi messo a cantare la canzone trasmessa dalla radio della signora Shaw, la governante, poco dopo l'ultima debole invocazione di Susannah, ma era un ipotesi per la quale era impossibile trovare conferma. Tanto sarebbe valso cercare di determinare il momento della genesi di un'emicrania o l'attimo preciso in cui ci si rende perfettamente conto che ti sta venendo il raffreddore. Di sicuro Jake sapeva che c'erano stati altri spari, compreso il sibilo di un colpo di rimbalzo, ma tutto questo era avvenuto a notevole distanza, cosicché a un certo momento smise di tenere la testa incassata tra le spalle (e anche di guardare indietro). Inoltre ormai Oy correva veloce, mulinando con vigore quei suoi piccoli e veloci quarti posteriori. I macchinari invisibili pompavano e sbuffavano. Nel pavimento affioravano rotaie d'acciaio che indussero Jake a pensare che una volta per di lì era passato un tram o qualche altro tipo di navetta. A intervalli regolari sulle pareti apparivano comunicati ufficiali (PATRICIA AL PROSSIMO NODO; FEDIC; HAI IL TUO PASS BLU?). Qua e là il rivestimento mancava, per certi tratti le rotaie non c'erano più, e in diversi punti vecchia acqua verminosa riempiva quelle che in tutto il mondo sarebbero state considerate tipiche buche stradali. Passarono oltre due o tre veicoli in panne, incroci tra un golf-cart e un vagone a pianale. Oltrepassarono anche un robot con la testa a forma di rapa che fece balenare i bulbi rossi degli occhi e mandò un singolo suono gracchiante che poteva essere un alt. Jake alzò un Oriza, domandandosi se sarebbe servito a qualcosa nel caso in cui il robot lo avesse inseguito. Ma non successe niente, quel solitario lampo rossastro doveva aver esaurito le ultime poche energie delle sue batterie, o cellule energetiche o pappa atomica o qualunque cosa fosse ad alimentarlo. Qua e là c'erano dei graffiti. Due gli furono familiari. Il primo era AVE RE ROSSO, con l'occhio rosso al posto delle due O. L'altro era BANGO SKANK, '84. Cribbio, pensò distrattamente Jake, gran bel giramondo questo Bango. Fu allora che si accorse che stava cantando sottovoce. Non erano parole, non proprio, era solo un vecchio refrain che ricordava vagamente d'aver sentito alla radio della cucina della signora Shaw: «A-wimeweh, a-wimeweh e, a-weee...»
S'interruppe, messo a disagio dall'eco lamentosa e talismanica di quella cantilena e si rivolse a Oy. «Devo fare pipì! Dammi un momento, vuoi?»
«Oy!» Il resto del messaggio era nelle orecchie drizzate e nel brillio degli occhi: Non metterci troppo.
Jake spruzzò orina su una delle pareti piastrellate, dalle cui fughe filtrava una porcheria verdastra. Tese anche l'orecchio e udì come previsto i suoi inseguitori. Quanti potevano essere? Roland probabilmente lo avrebbe saputo, ma lui non ne aveva idea. L'eco li faceva sembrare un reggimento.
Mentre si scrollava, gli venne da pensare che quella era una manovra che il Père non avrebbe fatto mai più, né gli avrebbe sorriso o puntato il dito, né si sarebbe fatto il segno della croce prima di desinare. Lo avevano ucciso. Gli avevano preso la vita. Gli avevano fermato respiro e polso. Tolti forse i sogni, il Père era ormai fuori della storia. Jake cominciò a piangere. Come quando sorrideva, anche le lacrime lo fecero ridiventare bambino. Oy si era voltato, ansioso di riprendere la corsa, ma ora era fermo con una chiara espressione preoccupata sul musetto.
«Va tutto bene», lo rassicurò Jake, riabbottonandosi la patta e quindi asciugandosi le guance con il dorso della mano. Solo che non andava tutto bene. Era peggio che triste, peggio che infuriato, peggio che preoccupato degli irriducibili uomini bassi che lo stavano rincorrendo. Ora che non era più sotto gli effetti dell'adrenalina, si rese conto di non essere solo triste, ma anche affamato. E stanco. Stanco? Ai limiti dell'esaurimento fisico. Non ricordava quand'era stata l'ultima volta che aveva dormito. L'essere stato risucchiato a New York attraverso quella porta, questo lo ricordava, e che Oy era stato quasi investito da un taxi, e quel prete della bomba di Dio con quel nome che gli rammentava Jimmy Cagney nei panni di George M. Cohan in quel vecchio film in bianco e nero che aveva visto alla TV nella sua stanza quand'era piccolo. Perché, gli veniva in mente adesso, c'era una canzone su un certo Harrigan. H-A-double-R-I; Harrigan, that's me. Tutte queste cose, le ricordava, ma non quando aveva messo per l'ultima volta sotto i denti qual...
«Eik!» abbaiò Oy, implacabile come il destino. Se i bimboli avevano un punto di rottura, rifletté stancamente Jake, Oy ne era ancora lontanissimo. «Eik-Eìk!»
«Sì, sì», rispose staccandosi dalla parete. «Eik-Eik adesso farà un bel corri-corri. Vai. Trova Susannah.»
Avrebbe voluto limitarsi a camminare, ma sapeva che non sarebbe bastato. Si costrinse al piccolo trotto e riprese a cantare sottovoce, questa volta mettendo anche le parole nella canzone: «In the jungle, the mighty jungle, the lion sleeps tonight... In the jungle, the quiet jungle, the lion sleeps tonight... ohhh...» Dopodiché ripartì con: a-wimeweh, a-wimeweh, a-wimeweh. Parole senza senso prese da una radio di cucina che era sempre sintonizzata sui vecchi successi della WCBS... Ma quella canzone in particolare non resuscitava nella sua memoria ricordi di qualche film? Non era una canzone tratta da Ribalta di gloria, vero? Era di un altro film, vero? Un film di mostri spaventosi? Qualcosa che aveva visto quand'era piccolo, forse quand'era ancora
(in fasce)
tanto piccolo da portare il pannolino?
«Near the vìllage, the quiet village, the lion sleeps tonight... Near the village, the peaceful village, the lion sleeps tonight... HYH-oh, a-wimeweh, a-wimeweh...»
Si fermò a massaggiarsi il fianco, con il fiato corto. Sentiva una fitta ma non era grave, non ancora almeno, non gli si era affondata nell'articolazione tanto da bloccarlo. Ma quella schifezza... quella porcheria verdastra che scivolava dalle fughe tra le piastrelle... trapelava dal vecchio stucco e dalla ceramica crepata perché era
(la giungla)
in profondità sotto la metropoli, come una catacomba
(wimeweh)
oppure come...
«Oy» disse dalle labbra screpolate. Dio, che sete! «Oy, questa non è muffa, questa è erba. O erba... oppure...»
Oy abbaiò il nome del suo amico, ma Jake non lo sentì nemmeno. L'eco degli inseguitori persisteva (si era per la verità avvicinato un po'), ma per la prima volta ignorò anche loro.
Erba che cresceva dal muro piastrellato.
Sopraffaceva il muro.
Guardò giù e vide altra erba, un verde brillante che era quasi viola sotto le lampade fluorescenti, erba che cresceva dal pavimento. E cocci di piastrelle sgretolate in frammenti come i resti di vecchi, gli antenati che erano vissuti e avevano costruito prima che i Vettori cominciassero a infrangersi e il mondo cominciasse ad andare avanti.
Si chinò. Affondò le dita nell'erba. Raccolse cocci aguzzi di piastrelle, sì, ma anche terra. La terra
(della giungla)
di qualche profonda catacomba o tomba o forse...
C'era uno scarafaggio nella manciata di terra che aveva raccolto, uno scarafaggio con un segno rosso sul guscio come un sorriso insanguinato, e Jake lo buttò via con un grido di disgusto. Il marchio del Re! Diciamo il vero! Tornò in sé e si ritrovò abbassato su un ginocchio a esercitarsi in archeologia come un eroe di qualche vecchio film mentre i bracchi arrancavano sulle sue tracce. E Oy lo stava guardando con gli occhi lucidi di ansietà.
«Eik! Eik-Eik!»
«Sì», disse rialzandosi in piedi. «Arrivo. Ma Oy... che posto è questo?»
Oy non capiva perché avvertisse ansia nella voce del suo ka-dinh; quello che vedeva lui era lo stesso posto di prima e quello che fiutava era lo stesso odore, l'odore di lei, l'odore che il ragazzo gli aveva chiesto di cercare e seguire. Ed era più fresco ora. Corse sulla sua viva scia.
4
Cinque minuti dopo Jake si fermò di nuovo. «Oy!» gridò. «Aspetta un momento.»
Aveva di nuovo la fitta al fianco ed era più profonda, ma anche questa volta non era stata la fitta a fermarlo. Era cambiato tutto. Ovvero stava cambiando. E, Dio lo assistesse, credeva di sapere in che cosa stesse cambiando.
Sopra di lui le lampade fluorescenti brillavano ancora, ma le pareti piastrellate erano fitte di verzura. L'aria era diventata umida e ora la camicia si era inzuppata e gli si era incollata al corpo. Davanti ai suoi occhi sbigottiti transitò una splendida farfalla arancione di dimensioni incredibili. Cercò di acchiapparla, ma la farfalla lo evitò senza difficoltà. Quasi allegramente, gli parve.
Il corridoio a mattonelle si era trasformato in un sentiero nella giungla. Davanti a loro saliva a un varco frastagliato nella fitta vegetazione, probabilmente una radura. Più avanti scorgeva grandi alberi che si alzavano in una bruma, alberi con il tronco ricoperto di muschio e i rami agghindati di rampicanti. Vedeva felci gigantesche e, attraverso le trine verdi delle foglie, un ardente cielo da giungla. Sapeva di essere sotto New York, doveva essere sotto New York, però...
Udì uno stridio di scimmia, tanto vicino da farlo sussultare e fargli alzare di scatto la testa, sicuro di trovarne una direttamente sopra di sé, a sogghignare da dietro una plafoniera. Poi, a gelargli il sangue, giunse il ruggito fondo di un leone. Che sicuramente non stava dormendo.
Era sul punto di tornare indietro, e a tutta birra, quando si rese conto di non poterlo fare; da quella parte c'erano gli uomini bassi (probabilmente guidati da quello che gli aveva detto che il padre era finito). E Oy lo guardava con gli occhi vibranti di impazienza, chiaramente desideroso di proseguire. Oy non era certamente stupido, tuttavia non aveva mostrato segni di allarme, almeno non riguardo a quanto potesse trovarsi sulla loro strada.
Per parte sua, Oy ancora non riusciva a capire dov'era il problema del ragazzo. Sapeva che era stanco, lo sentiva dall'odore, ma sapeva anche che Eik aveva paura. Perché? C'erano odori cattivi in quel posto, l'odore di molti uomini assieme, soprattutto, ma a Oy non sembrava che rappresentassero un pericolo immediato. Inoltre c'era anche l'odore di lei. Che ora era molto fresco. Quasi nuovo.
«Eik!» abbaiò di nuovo.
Jake aveva ripreso a respirare. «Va bene», rispose guardandosi intorno. «Okay. Ma adagio.»
«Gio», disse Oy, ma anche a Jake non sfuggì il suo tono di totale disapprovazione.
Jake si incamminò perché non aveva scelta. Risalì il pendio sul sentiero in mezzo alla vegetazione (nella percezione di Oy la via era perfettamente dritta e lo era da quando avevano lasciato le scale) verso l'apertura tra rampicanti e felci, verso il capriccioso chiacchiericcio della scimmia e il ruggito gelatesticoli della belva cacciatrice. Nella testa riprese a girargli la canzone
(in the village... in the jungle... hush my darling, don't stir my darling...)
e adesso ne ricordò il titolo, ricordò persino il nome del gruppo
(sono i Tokens in The Lion Sleeps Tonight, usciti di classifica ma non dai nostri cuori)
che l'aveva interpretata, ma qual era il film? Come diavolo s'intitolava quel...
Arrivò in cima alla salita e sul bordo della radura. Allungò lo sguardo attraverso un intreccio di grandi foglie verdi e vivaci fiori viola (dentro uno dei quali era in viaggio un minuscolo bruco verde) e, mentre guardava, gli sovvenne il titolo del film e la pelle gli s'increspò dalla nuca giù fino ai piedi. Un attimo dopo dalla giungla («la maestosa giungla») uscì il primo dinosauro ed entrò nella radura.
5
Molto molto tempo fa
(per la dama e il suo signore)
quando era ancora bambino;
(merendina per favore)
molto molto tempo fa quando mamma andò a Montreal con il suo circolo artistico e papà andò a Vegas per l'annuale presentazione degli show d'autunno;
(marmellata e tè di more)
molto molto tempo fa quando 'Bama aveva tre anni...
6
'Bama, è così che l'unica persona buona
(signora Shaw signora Greta Shaw)
lo chiama. Lei gli taglia via le croste dai sandwich, lei appende i disegni che lui fa all'asilo allo sportello del frigorifero con delle calamite che hanno la forma di piccoli frutti di plastica, lei lo chiama 'Bama ed è un nome speciale per lui
(per loro)
perché un sabato pomeriggio, ubriaco, suo padre gli ha insegnato a cantare: «Go wide, go wide, roll you Tide, we don't run and we don't hide... siamo i 'Bama Crimson Tide!» e così lei lo chiama 'Bama, è un nome segreto e sapere che cosa significa quando non lo sa nessun altro è come avere una casa dove potersi rifugiare, una casa sicura nel bosco che fa paura dove tutte le ombre fuori sembrano mostri e orchi e tigri.
(«Tigre, tigre! Divampante fulgore nelle foreste», gli recita la mamma, perché questa è la sua idea di ninna nanna, assieme a: «Morendo, ho udito ronzare una mosca», che mette addosso a 'Bama Chambers una fifa terribile, anche se lui non glielo ha mai detto; certe volte di notte, a letto, e certe volte di pomeriggio, all'ora del sonnellino, sta lì a pensare sentirò una mosca e sarà quella della mia morte, il mio cuore si fermerà e la mia lingua mi cascherà dentro la gola come un sasso in un pozzo e questi sono ricordi che respinge)
È bello avere un nome segreto e quando scopre che mamma deve andare a Montreal per amore dell'arte e che papà va a Vegas ad aiutare a presentare i nuovi programmi del network, prega sua madre perché chieda alla signora Greta Shaw di rimanere con lui e finalmente sua madre cede. Il piccolo Jakie sa che la signora Shaw non è la mamma e in più di un'occasione la signora Greta Shaw stessa gli ha detto che non è la mamma
(«Spero che tu sappia che io non sono la tua mamma, 'Bama», dice, dandogli un piatto, e sul piatto c'è un sandwich al burro di arachidi, bacon e banana con le croste di pane tagliate via, come solo Greta Shaw sa tagliarle via, «perché questo non c'è nel mio contratto di lavoro.»)
(E Jakie - solo che qui è 'Bama, lui è 'Bama tra loro due - non sa bene come risponderle che lo sa, questo, lo sa, lo sa, ma si accontenterà di lei finché non arriverà quella vera o finché sarà diventato abbastanza grande da superare la sua paura della Mosca della Morte)
E Jackie dice non ti preoccupare, non c'è problema, ma è lo stesso contento che la signora Shaw abbia accettato di rimanere invece di essere consegnato all'ultima au pair che porta le sottane corte e gioca sempre con i capelli e il rossetto e non gliene frega un cazzo di lui e non sa che nel suo cuore segreto lui è 'Bama e ragazzi se quella piccola Daisy Mae
(che è come suo padre chiama tutte le ragazze alla pari)
non è stupida stupida stupida. La signora Shaw non è stupida. La signora Shaw gli dà una merenda che certe volte chiama Afternoon Tea o anche High Tea, e qualunque cosa sia - ricotta e frutta, un sandwich con le fette di pane senza crosta, budino di crema e torta, canapè avanzati dal cocktail party della sera prima - gli canta sempre la stessa canzoncina, mentre prepara la tavola: «Per la dama e il suo signore, merendina per favore, marmellata e tè di more».
Nella sua stanza c'è una TV e ogni giorno quando i suoi non ci sono lui va lì con la sua merenda e guarda guarda guarda e ascolta la sua radio in cucina, sempre le vecchie canzoni, sempre la WCBS, e qualche volta sente lei, sente la signora Greta Shaw che canta con i Four Seasons Wanda Jackson Lee «Yah-Yah» Dorsey, e qualche volta lui fa finta che i suoi siano morti in un incidente aereo e che lei sia diventata davvero sua madre e che lo chiami povero piccolo e povero marmocchio smarrito e poi grazie a qualche trasformazione magica lo ami invece che accudirlo soltanto, lo ami lo ami lo ami come lui ama lei, lei è la sua mamma (o magari sua moglie, non ha chiara nella mente la differenza che corre tra le due cose), ma lei lo chiama 'Bama invece di tesorino
(la sua vera mamma)
o campione
(papà)
e sebbene sappia che è un'idea stupida, pensarci quando è a letto è divertente, pensarci è pisciosamente meglio che pensare alla Mosca della Morte che verrà a ronzare sul suo cadavere quando morirà con la lingua in gola come un sasso in fondo a un pozzo. Di pomeriggio quando torna a casa dall'asilo (quando sarà abbastanza grande da sapere che in realtà è una scuola materna ne sarà già fuori) guarda Million Dollar Movie in camera sua. A Million Dollar Movie mostrano esattamente lo stesso film a esattamente la stessa ora - le quattro - di tutti i giorni della settimana. La settimana prima che i suoi genitori partissero e la signora Greta Shaw rimanesse per la notte invece di tornare a casa sua
(oh che felicità, perché la signora Greta Shaw è la negazione di Discordia, diciamo amen)
giungeva musica da due fonti diverse, c'erano i vecchi successi in cucina
(WCBS diciamo bomba di Dio)
e in TV James Cagney in bombetta si pavoneggia e canta di Harrigan - «H-A-double R-I, Harrigan, that's me!» - E poi anche quella del vero nipote in carne e ossa di mio Zio Sam.
Poi è una settimana nuova, la settimana in cui i suoi sono via, e c'è un nuovo film, e la prima volta che lo vede gli prende una fifa che è un miracolo che non se la faccia sotto. Questo film s'intitola Il continente scomparso e il protagonista è Cesar Romero, e quando Jake lo vedrà di nuovo (e ormai avrà dieci anni) si domanderà come sia stato possibile che si fosse fatto spaventare da un film così idiota. Perché, vedete, racconta di certi esploratori che si smarriscono nella giungla e in quella giungla ci sono dei dinosauri e a quattro anni non si era accorto che quei dinosauri non erano che fottuti DISEGNI ANIMATI, tali e quali a Titti e Silvestro e Braccio di Ferro, ak-ak-ak, diciamo Poldo, datemi Olivia. Il primo dinosauro che vede è un triceratopo che sbuca al galoppo dalla giungla e la giovane esploratrice
(tettona mozzafiato, avrebbe senzaltro dichiarato suo padre, è così che dice sempre suo padre di Quel Certo Tipo Di Ragazza, come le chiama la mamma)
strilla con quanto fiato ha in corpo e strillerebbe anche Jake se potesse, ma ha il petto bloccato dal terrore, o questa è l'incarnazione di Discordia! Negli occhi del mostro vede il nulla assoluto che significa la fine di ogni cosa, perché con un simile mostro le suppliche non servirebbero a niente e un simile strillare non servirebbe a niente, è troppo stupido, strillare otterrebbe solo di attirare l'attenzione del mostro, ed è proprio così, si gira verso Daisy Mae con quelle tettone mozzafiato e poi si avventa su Daisy Mae con le tettone mozzafiato e nella cucina («la maestosa cucina») sente i Tokens, usciti dalle classifiche, ma non dai nostri cuori, stanno cantando della giungla, la pacifica giungla, lì davanti agli occhi del bambino ingigantiti dall'orrore c'è una giungla che non è niente affatto pacifica e non c'è un leone ma un colosso pencolante che somiglia un po' a un rinoceronte ma è molto più grosso, e ha una specie di collare osseo intorno al collo e più tardi Jake scoprirà che quel tipo di mostro è un triceratopo, ma al momento non ha un nome, che è ancora peggio, anonimo è peggio. «Wimeweh», cantano i Tokens, «a-wimeweh», e naturalmente Cesar Romero uccide il mostro un attimo prima che sbrani la ragazza con le tettone mozzafiato pezzo a pezzo, e fin lì va tutto bene, se non che quella notte il mostro ritorna, il triceratopo torna, adesso è nel suo armadio, perché anche a quattro anni capisce che certe volte il suo armadio non è il suo armadio, è una porta che può aprirsi su luoghi disparati dove ci sono in agguato cose orribili.
Comincia a gridare, di notte può gridare, e nella sua stanza accorre la signora Greta Show. Si siede sul bordo del letto, ha la faccia resa spettrale da una maschera di bellezza azzurrognola, e gli chiede che cosa succede 'Bama e lui riesce anche a spiegarglielo. Non avrebbe mai potuto dirlo a papà o a mamma, ci fosse stato uno di loro, e naturalmente non ci sono, ma può dirlo alla signora Shaw perché anche se non è molto diversa dalle altre assistenti, le ragazze alla pari le badanti le sorveglianti - è un po' diversa, abbastanza diversa da applicare i suoi disegni sul frigorifero con quelle piccole calamite, abbastanza da fare una grande differenza, da sostenere la torre dell'equilibrio mentale di uno sciocco bambinello, diciamo alleluia, diciamo trovato non perso, diciamo amen.
Ascolta tutto quello che lui ha da raccontare, annuendo, e gli fa dire tri-CER-a-TOPO finché finalmente riesce a pronunciarlo a dovere. Dirlo giusto è meglio. E poi dice: «Quelle bestie erano reali molto tempo fa, ma sono morte da cento milioni di anni, 'Bama. Forse anche più. Ora non disturbarmi più perché ho bisogno di dormire».
Quella settimana Jake guarda Il continente scomparso su Million Dollar Movie tutti i giorni. Ogni volta che lo vede, ne è un po' meno impaurito. Un giorno la signora Greta Shaw si siede a vederne un pezzo con lui. Gli porta la sua merenda, una scodellona di Hawaiian Fluff (lo mangia anche lei) e gli canta quella splendida canzoncina «Per la dama e il suo signore, merendina per favore, marmellata e tè di more». Non ci sono more nell'Hawaiian Fluff ovviamente, e invece del tè bevono un avanzo di succo di pompelmo, ma la signora Greta Shaw dice che è il pensiero che conta. Gli ha insegnato a dire Rooty-tooty-salutie prima di bere, e a far tintinnare i bicchieri. Per Jake è una figata, il massimo del massimo.
Presto arrivano i dinosauri. 'Bama e la signora Greta Shaw sono seduti vicini a mangiare l'Hawaiian Fluff e a guardarne uno enorme (la signora Greta Shaw dice che quelli si chiamano tirannosorbi) mangiare l'esploratore cattivo. «Li hanno disegnati, i dinosauri», sbuffa la signora Greta Show. «Che bambinata.» Dal punto di vista di Jake, questa è la critica cinematografica più geniale che abbia mai udito in vita sua. Geniale e utile.
Poi tornano i genitori. Per tutta la settimana su Million Dollar Movie danno Cappello a cilindro e dei terrori notturni del piccolo Jakie non si parla mai. Con il passare del tempo dimentica le sue paure dei triceratopi e del tirannosorbo.
7
Ora, sdraiato nell'erba alta a spiare nella radura nebbiosa attraverso le foglie di una felce, Jake scoprì che ci sono cose che non si dimenticano mai.
Attento alla trappola mentale, lo aveva ammonito Jochabim e guardando quel goffo dinosauro Jake capì di che cosa parlava. Un triceratopo disegnato in una giungla vera come un rospo immaginario in un giardino vero. Era quella la trappola mentale. Il triceratopo non era reale per quanto impressionante fosse il suo ruggito, per quanto forte l'odore che arrivava alle narici di Jake - i brandelli di vegetazione che marcivano nelle pieghe molli delle articolazioni delle sue tozze zampe, gli avanzi di sterco che imbrattavano il lato posteriore della sua possente armatura, la bava che gli colava incessantemente dalle fauci zannute - e per quanto all'orecchio gli giungesse il suo ansimare. Non poteva essere reale, era un disegno animato, Dio del cielo!
E tuttavia sapeva che era abbastanza reale da poterlo uccidere. Se fosse entrato in quella radura, il triceratopo di carta lo avrebbe dilaniato come avrebbe fatto con Daisy Mae con le tettone mozzafiato se Cesar Romero non fosse intervenuto in tempo a piantargli una pallottola in quell'Unico Punto Vulnerabile con il suo potente fucile da caccia grossa. Jake aveva neutralizzato la mano che aveva cercato di manomettere i controlli del suo motore - aveva sbattuto tutte quelle porte con tanta violenza da maciullare le dita dell'intruso, per quel che ne sapeva - ma qui la situazione era diversa. Non poteva chiudere gli occhi e passare oltre, quello creato dalla sua mente traditrice era un mostro vero e poteva veramente sbranarlo.
Lì non c'era un Cesar Romero a impedirlo. E nemmeno Roland.
C'erano solo gli uomini bassi che lo stavano inseguendo ed erano sempre più vicini.
Come a sottolineare quell'aspetto, Oy si girò a guardare da dove erano arrivati e abbaiò una volta, un latrato forte e penetrante.
Il triceratopo lo sentì e ruggì in risposta. Jake si aspettava che a quel verso terribile Oy si sarebbe precipitato a nascondersi al suo fianco, invece il bimbolo continuò a guardare oltre la spalla del suo padroncino. Era preoccupato degli uomini bassi, non del triceratopo poco distante o del tirannosorbo che sarebbe potuto arrivare di lì a poco, o...
Perché Oy non lo vede, pensò.
Si baloccò con quell'ipotesi e non riuscì a liberarsene. Oy non ne aveva neppure sentito l'odore o il ruggito. La conclusione ineludibile: per Oy, il tremendo triceratopo nella maestosa giungla sottostante non esisteva.
Ma non cambia il fatto che esiste per me. È una trappola che è stata tesa per me, o per chiunque altro provvisto di immaginazione che fosse passato per di qui. Un congegno degli Antichi, senza dubbio. Peccato che non si fosse guastato come quasi tutto il resto. Purtroppo questo funziona. Io vedo quel che vedo e non ci posso fare nien...
No, aspetta.
Un momento.
Non aveva idea di quanto salda fosse la sua connessione mentale con Oy e decise di scoprirlo subito.
«Oy!»
Ormai i richiami degli uomini bassi erano orribilmente vicini. Presto avrebbero visto il ragazzo e il bimbolo fermi laggiù e avrebbero dato l'assalto. Oy ne sentiva l'odore, ma guardò lo stesso Jake con sufficiente calma negli occhi. Era il suo amato Jake, per il quale, se necessario, avrebbe dato la vita.
«Oy, puoi scambiarti di posto con me?»
Scoprì che poteva.
8
Oy vacillò dritto sulle zampe posteriori con Eik tra le braccia, rollando pericolosamente di qua e di là, orripilato dalla scoperta di quanto precario fosse l'equilibrio del piccolo umano. L'idea di percorrere anche una breve distanza su due zampe sole era di per sé da brividi, ma andava fatto e andava fatto subito. Così voleva Eik.
Per parte sua, Jake sapeva che avrebbe dovuto chiudere gli occhi che aveva preso in prestito. Era nella testa di Oy ma vedeva lo stesso il triceratopo; ora vedeva anche uno pterodattilo attraversare l'aria calda sopra la radura, con le coriacee ali distese sulla corrente ascensionale che saliva dagli scambiatori.
Oy! Devi farlo da solo. E se vogliamo sperare di non farci raggiungere devi farlo ora.
Eik! Rispose Oy e fece un primo passo titubante. Il corpo del ragazzo oscillò da una parte all'altra, fino al limite estremo dell'equilibrio e poi oltre. Lo stupido corpo bipede di Eik cadde di lato, Oy cercò di salvarlo e riuscì solo a peggiorare il ruzzolone, finendo sul fianco destro del ragazzo e facendo sbattere la sua testa pelosa.
Cercò di esprimere con un latrato la sua frustrazione. Dalla bocca gli scaturì una stupidaggine che somigliava più a parole che versi: «Bah! Bau! Merdau!»
«L'ho sentito!» gridò qualcuno. «Corriamo! Avanti, muovetevi, inutili pappamolle! Prima che quel piccolo bastardo arrivi alla porta!»
Le orecchie di Eik non erano particolarmente sensibili, ma lo aiutavano le pareti a piastrelle che amplificavano i suoni. Oy sentiva i rumori dei loro passi in corsa.
«Devi alzarti e andare!» cercò di gridare Jake e, quello che gli scaturì dalla gola, fu un latrato distorto: «Eik-Eik, art! Are-are!» In altre circostante sarebbe stato anche buffo, ma non in quel momento.
Oy si rialzò appoggiando la schiena di Eik al muro e spingendo con le gambe di Eik. Stava cominciando a capire come funzionava il sistema motorio; erano in un posto che Eik chiamava Dogan e i comandi erano abbastanza semplici da usare. A sinistra, tuttavia, un corridoio ad arco portava a uno stanzone pieno di macchinari scintillanti come specchi. Oy sapeva che se fosse entrato là dentro - la stanza dove Eik teneva tutti i suoi pensieri meravigliosi e la sua scorta di parole - si sarebbe perso per sempre.
Fortunatamente non ci doveva andare. Tutto quello di cui aveva bisogno era nel Dogan. Piede sinistro... avanti. (E pausa.) Piede destro... avanti. (E pausa.) Sostieni la cosa che somiglia a un bimbolo ma in realtà è il tuo amico e usa l'altro braccio per mantenerti in equilibrio. Resiste all'istinto di mettersi a quattro zampe. Se lo facesse, gli inseguitori lo raggiungerebbero; non ne avverte più l'odore (non con quell'incredibilmente insensibile patatina di muso che ha Eik), ma ne è sicuro lo stesso.
Per parte sua, Jake ne sentiva l'odore distintamente, almeno una decina e forse anche fino a sedici inseguitori. I loro corpi erano perfette macchine da puzzo, che li precedeva come una zaffata di discarica. Sentiva gli asparagi che uno di loro aveva mangiato per cena; sentiva l'olezzo carnoso del cancro che cresceva in uno degli altri, probabilmente nella testa ma forse in gola.
Poi udì di nuovo il ruggito del triceratopo. A esso rispose l'animale alato che veleggiava sopra di loro.
Jake chiuse gli occhi... di Oy. Al buio, l'incedere ondulatorio del bimbolo era ancora peggiore. Cominciò a temere che, se fosse andata avanti così per troppo tempo (specialmente con gli occhi chiusi), avrebbe vomitato l'anima. Si sentiva 'Bama il Marinaio con il mal di mare.
Vai, Oy, pensò. Più veloce che puoi. Non cadere di nuovo, ma... corri più forte che puoi!
9
Ci fosse stato Eddie, gli sarebbe forse tornata alla mente la signora Mislaburski che abitava qualche casa più in là: la signora Mislaburski in febbraio, dopo una tempesta di neve, quando il marciapiede era glassato di ghiaccio e non ancora cosparso di sale. Ghiaccio o non ghiaccio, nessuno però avrebbe potuto sottrarle la sua quotidiana costoletta o filetto di pesce al Castle Avenue Market (ovvero la messa della domenica, perché la signora Mislaburski era forse la più pia di tutti i cattolici di Co-Op City). Eccola, allora, a gambe ben larghe, serrate nelle calze elastiche rosa confetto, un braccio a schiacciarsi la borsetta contro il petto immenso, l'altro proteso per tenersi in equilibrio, a testa abbassata, occhi a caccia degli isolotti di cenere rovesciati fuori dai custodi di stabili più mattinieri e zelanti (Gesù e Maria madre di Dio, che benedicessero quella brava gente), e anche alle lastre più infide che avrebbero potuto tradirla, che avrebbero potuto mandarla a patapunfete con le grosse ginocchia rosa slanciate di qua e di là e lei sbam, una deretanata, o magari una schienata, roba che una donna può spezzarsi la spina dorsale, una donna può rimanere paralizzata come la povera figlia della signora Bernstein in quell'incidente d'auto a Mamaroneck, guai che capitano. Dunque ignorava i lazzi dei bambini (spesso c'erano anche Henry Dean e il suo fratellino Eddie) e andava per la sua strada, a testa china, con il braccio teso per non perdere l'equilibrio, la solida borsetta nera da vecchia signora strizzata contro il seno, risoluta a proteggere la borsetta e il suo contenuto a ogni costo, fosse finita a patapunfete, decisa a caderci sopra come Joe Namath sapeva cadere sulla palla quando veniva placcato.
Così camminava Oy del Medio-Mondo nel corpo di Jake in un tratto di tunnel sotterraneo che (almeno a lui) sembrava in tutto e per tutto uguale a quello che aveva percorso fino a quel momento. La sola differenza che vedeva era nei tre fori su entrambi i lati, con grossi occhi di vetro che li guardavano, occhi che emettevano un costante e sommesso ronzio.
Tra le braccia sosteneva qualcosa che somigliava a un bimbolo con gli occhi strizzati, chiusi chiusi. Fossero stati aperti, Jake avrebbe forse riconosciuto le lenti di proiettori. Più probabilmente, però, non li avrebbe visti affatto.
Camminando lentamente (Oy sapeva che gli inseguitori guadagnavano terreno, ma sapeva anche che camminare adagio era meglio che cadere), con le gambe divaricate e dondolandosi di qua e di là, sostenendo Eik rannicchiato contro il petto come la signora Mislaburski stringeva la sua borsetta nei giorni di gelata, passò davanti agli occhi di vetro. Il ronzio si affievolì. Bastava? Sperò di sì. Camminare come un umano era semplicemente troppo arduo, roba da far saltare i nervi. Insopportabile anche essere così vicino al macchinario che produceva i pensieri di Eik. Aveva la tentazione di girare e guardare da quella parte, guardare tutte quelle brillanti superfici a specchio, ma non lo fece. Rischiava di restarne ipnotizzato. Se non peggio.
Si fermò. «Jake! Guarda!»
Jake cercò di rispondere okay e invece abbaiò. Molto divertente. Aprì con cautela gli occhi e vide pareti piastrellate su entrambi i lati. D'accordo, qua e là cresceva ancora erba nelle fughe e c'erano piccoli ciuffi di felci, ma erano comunque piastrelle. Ed erano in un corridoio. Guardò dietro di sé e vide la radura. Il triceratopo si era dimenticato di loro. Era impegnato in una battaglia mortale con il tirannosorbo, una scena che ricordava chiaramente di aver visto in Il continente scomparso. La ragazza con le tettone mozzafiato aveva seguito lo svolgersi della battaglia fra le braccia protettive di Cesar Romero e, quando il tirannosorbo di cartapesta aveva stretto le enormi fauci sulla testa del triceratopo in un morso fatale, aveva nascosto il volto contro il petto virile di Cesar Romero.
«Oy» abbaiò Jake, ma abbaiare era una cosa rozza e decise di ricorrere invece al pensiero.
Cambia di nuovo con me!
Oy lo accontentò molto volentieri, mai aveva desiderato tanto farlo, ma prima di poter effettuare lo scambio, gli inseguitori li videro.
«Là!» gridò quello con l'accento di Boston, quello che lo aveva informato che il Padre era finito. «Eccoli là! Prendeteli! Uccideteli!»
E, mentre Jake e Oy si riscambiavano le menti restituendo ciascuna al proprio corpo, intorno a loro cominciarono a volare le pallottole come uno schioccar di dita.
10
A guidare il drappello c'era un uomo di nome Flaherty. Dei diciassette componenti, era l'unico umano. Gli altri erano uomini bassi vampiri, eccetto uno. Quest'ultimo era un taheen con la testa di una faina, occhi intelligenti, e due enormi zampe pelose coperte per metà da un paio di bermuda. In fondo alle gambe aveva piedi lunghi e stretti che terminavano in corni affilatissimi. Un calcio di Lamla avrebbe segato un uomo adulto in due.
Flaherty - cresciuto a Boston ma per quegli ultimi vent'anni uno degli uomini del Re in una manciata di New York di fine ventesimo secolo - aveva riunito la sua squadra il più velocemente possibile, in preda a una lancinante crisi di paura e furore. Niente entra al Pig. Così aveva detto Sayre a Meiman. E se per caso qualcosa fosse entrato lo stesso, per nessun motivo sarebbe potuto uscire. E questo valeva il doppio per il pistolero o per chiunque del suo ka-tet. Le loro interferenze avevano superato da tempo i limiti della semplice seccatura, e non c'era bisogno di far parte dell'elite per saperlo. Intanto Meiman, quello che i pochi amici chiamavano il Canarino, era morto e il ragazzo era miracolosamente riuscito a passare. Un moccioso, santa pace! Un moccioso del cazzo! Ma come avrebbero potuto sapere che erano in possesso di un totem potente come quella tartaruga? Se quel ninnolo maledetto non fosse finito sotto uno dei tavoli, forse ora sarebbero ancora tutti lì come impietriti.
Flaherty sapeva che sarebbe andata così, ma sapeva anche che Sayre non lo avrebbe mai accettato come giustificazione valida. Non gli avrebbe neppure permesso di formularla. No, sarebbe morto molto prima, lui e tutti gli altri assieme. Morto stecchito per terra, a farsi bere il sangue dagli insetti-dottori.
Facile obiettare che il ragazzo si sarebbe fermato davanti alla porta, perché non conosceva, non poteva conoscere nessuna delle parole d'ordine che l'aprivano, ma Flaherty non si fidava più di queste rassicurazioni teoriche, per quanto tentatrici. Restava una sola cosa da fare e Flaherty si sentì sommergere dal sollievo quando scorse il ragazzo e il suo piccolo amico peloso fermi in fondo al tunnel. Alcuni della sua squadra fecero fuoco, ma andarono a vuoto. Non se ne sorprese. C'era una zona verde tra loro e il ragazzo, un fottuto scampolo di giungla sotto la città, così sembrava, e si stava alzando una nebbia che rendeva difficile prendere la mira. E poi... quei ridicoli dinosauri a disegni animati! Ne vide uno sollevare il crapone lordo di sangue e ruggire portandosi le minuscole zampe anteriori al petto squamoso.
Sembra un drago, pensò Flaherty, e davanti ai suoi occhi il dinosauro di carta diventò un drago. Ruggì di nuovo e vomitò una fiammata che incendiò liane e muschio. Intanto il ragazzo aveva ripreso a correre.
Lamla, il taheen con la testa di faina, si fece largo tra gli altri per raggiungere il capo e si portò alla fronte il pugno peloso. Flaherty ricambiò il saluto con impazienza. «Cosa c'è laggiù, Lam? Lo sai?»
Flaherty non era mai stato sotto il Pig. Quando viaggiava per affari, era sempre tra una New York e l'altra, vale a dire usando o la porta sulla Quarantasettesima Strada, tra la Prima e la Seconda, quella nel magazzino perennemente vuoto di Bleecker Street (solo che in certi mondi era uno stabile eternamente incompiuto), oppure quella che si trovava più su, nella Novantaquattresima. (Sempre difettosa quest'ultima, e naturalmente nessuno sapeva come ripararla.) C'erano altre porte in città - New York era infestata di portali per altri dove e quando - ma quelle due erano le sole che funzionavano ancora.
E quella per Fedic, naturalmente. Quella in fondo al tunnel.
«C'è un miraggiatore», rispose l'essere con la testa da faina. La sua voce era un gorgoglio che non aveva niente di umano. «È una macchina che intercetta le tue paure e le fa diventare reali. Deve averla messa in funzione Sayre quando è passato di qui con il suo tet e la donna con la pelle nera. Per coprirsi le spalle.»
Flaherty annuì. Una trappola mentale. Molto furbo. Ma a che cosa era servito alla fine? Quel marmocchio merdoso era passato lo stesso, no?